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04 Febbraio 2013, 08.30

I racconti del lunedì

Dieci giorni nella terra delle aquile - cinque

di Ezio Gamberini
Quinta puntata - Domenica 16 agosto. Anche questa notte Rataplan ha abbaiato come un forsennato per ore...
 
... Alle tre mi sono alzato e, dopo essere uscito, l’ho guardato negli occhi e con l’indice levato l’ho redarguito duramente: “Cane sciocco e irriguardoso, smettila!”.
Mi ha fissato stranamente ed ha ripiegato un po’ il muso, mentre rientravo in camera. Speravo di ferirlo nell’orgoglio, ma non c’è stato nulla da fare e dopo due minuti ha ripreso imperterrito.
Allora è uscito Ezio; non so che argomenti abbia usato Nene, ma certamente più persuasivi dei miei perchè per un po’ ha taciuto. Chissà cosa gli ha detto!

Oggi compie gli anni (diciassette) la nostra figliola Chiara, e non è la prima volta che ciò succede lontano di casa, capitando proprio in periodo di ferie

Dopo un paio di partite veloci con Paolo (la prima al meglio dei cinque perdevo tre a zero, poi è finita cinque a quattro per me; prima o poi questo ragazzo mi batterà!), partiamo per Stojan, la cui chiesa si trova in collina, ai piedi della quale parcheggiamo i furgoni.
Per raggiungerla saranno necessari almeno tre quarti d’ora “pedibus calcantibus” (a piedi insomma) di salita. Marica confessa, sconsolata: “Se avessi abitato in Albania sarei già diventata mussulmana!”.

Dalla cima si può scorgere la conformazione del villaggio, che è cosparso di abitazioni disseminate su una superficie enorme, mentre vicino alla chiesetta, costruita ai piedi di un rudere che un tempo fu un grande santuario, è situata la scuola.
Dopo la celebrazione della messa torniamo a valle, non prima di aver sostato presso un anziano signore, amico della missione, che parla la nostra lingua, avendo fatto l’attendente ad un ufficiale italiano durante la seconda guerra mondiale.
E’ elegantissimo, ci invita a sedere e ci offre dolci e bevande di ogni tipo. Ci voleva proprio qualcosa di fresco, siamo proprio accalorati!

Ripartiamo con destinazione Rreschen, ove visiteremo la cattedrale, inaugurata nel novembre del 2002 alla presenza del Cardinale Crescenzio Sepe, attuale Arcivescovo di Napoli, quando don Gianfranco era in terra albanese da una settimana, e noi tre che lo accompagnammo ripartivamo per l’Italia proprio il giorno antecedente l’inaugurazione.

La stanchezza si fa sentire e quasi tutti si appisolano. Mentre Spressin è al volante, ed io al suo fianco, Paolo, dietro di me, mi sussurra all’orecchio: “Ezio, su questo pulmino siamo svegli soltanto in tre: l’autista, tu e io... Se ero davanti anch’io, eh...”.
Ah, Paolino, che il Signore ti preservi intatto e ti conservi buono e generoso. Se proprio vogliamo prenderci anche il braccio, dopo il dito che ci è stato offerto, che riveda un po’ il tuo appetito.
Paolo, secondo me, non è goloso, ma un vero buongustaio. L’ho visto centellinarsi un panino socchiudendo gli occhi compiaciuto, masticando piano piano. So che in una riunione conviviale, durante un pranzo luculliano, gli riferirono, per scherzo, che dopo il banchetto sarebbero andati tutti a mangiare la pizza. Paolo, dopo aver gustato tutte le portate, quando fu il momento del dolce disse al cameriere: “No grazie, altrimenti dopo non riesco a mangiare la pizza...”.

Verso le 14 raggiungiamo il capoluogo della Mirdita, sede della cattedrale, e sostiamo davanti al ristorante dove abbiamo prenotato. Un cameriere sta terminando di spazzare i pavimenti e ci guarda incuriositi.
“No, qui non c’è nessuna prenotazione!”.
C’è stato un disguido, riprendiamo la strada ed in periferia ci fermiamo in un ristorante dove gusteremo un ottimo riso pilaf, carne alla brace e patatine fritte (ma prima di tutto mi scolo in pochi secondi una bottiglia intera di acqua). Il costo? Poco più di seicento lek, quattro euro e mezzo a testa!

Torniamo in centro per visitare la cattedrale, ci fermiamo una mezz’oretta.

Via, si riparte per Tirana, che raggiungiamo verso le 17 e 30, prendiamo possesso delle camere al Klajdis Park, alle porte della città: nella grande sala a piano terra questa sera si terrà il pranzo nuziale! Dopo esserci “messi a posto” ci rechiamo alla casa di Alessandro, che dista un quarto d’ora di macchina; è un gesto dovuto.
Qui in Albania il rito del matrimonio deve rispettare la tradizione che prevede festeggiamenti che possono durare giorni: nel caso di Alessandro, in casa sua la festa è cominciata domenica scorsa. Tutti i parenti e gli amici si recano in casa dello sposo e vengono accolti dai familiari. Il clou si raggiunge ovviamente con il pranzo nuziale.
A questo punto è necessario aprire una parentesi, spiegando che per noi italiani, abituati ad un ritmo di vita spesso al limite, con riferimento al tempo ed alla sua gestione, può apparire uno spreco di energie prolungarsi in interminabili cerimonie di saluto e accoglienza. Forse noi “occidentali” dovremmo riscoprire questa “ricchezza”, che non costa nulla, ma al contrario ci valorizza.
Personalmente ho già sperimentato questo particolare, l’anno scorso, quando nei due mesi di convalescenza, durante le passeggiate che quotidianamente dovevo effettuare, mi fermavo spesso a parlare con le persone che incontravo. E’ stata davvero una piacevolissima riscoperta.

Alessandro ed i suoi ci accolgono festosamente e manifestano tutta la riconoscenza per essere presenti alla loro festa. Saliamo al piano superiore, da poco costruito per la nuova famiglia, e salutiamo Elsa, che ci attende nella sua camera da letto. Anche in questo caso la tradizione vuole che la sposa non possa oltrepassare la soglia della camera, nell'attesa che gli ospiti entrino a festeggiarla, ed in passato ciò era vietato ai maschi, una sorta di rispetto della “purezza” della sposa, che soltanto prima della cerimonia verrà “presa in consegna” dalle sorelle o dalle amiche per essere “affidata” allo sposo ed alla sua famiglia.

In Albania, soprattutto nei villaggi, per la famiglia d’origine la sposa è “persa”: a tutti gli effetti diventa membro della famiglia dello sposo. Ed anche il fidanzamento è una sorta di contratto, con le stesse prerogative del matrimonio vero e proprio.
Per Alessandro è stata una fortuna poter scegliere Elsa: l’ha incontrata, s’è fidanzato e l’ha sposata, ma nella stragrande maggioranza dei casi, ancora oggi, in Albania, i matrimoni sono combinati dalle famiglie.

Quando tutti gli invitati (duecentottanta!) si sono accomodati ai tavoli, fanno il loro ingresso in sala Alessandro ed Elsa, elegantissimi nei loro incantevoli abiti; dai loro visi traspare compiacimento ed esultanza, estasi e felicità per aver realizzato il loro sogno.
Eseguono il primo ballo: è il segno che la festa può iniziare. L’orchestra non smetterà più di suonare, e fino a notte fonda le danze proseguiranno senza sosta, ininterrottamente. Noi italiani siamo stati sistemati in due tavoli rotondi attigui, da dodici coperti ciascuno.
Quasi tutti i tavoli sono di questa dimensione. Ogni invitato vi trova collocata ogni sorta di bevanda, dall’acqua alle bibite, dalla birra al rakì (il liquore tradizionale albanese, distillato di prugne, quando di qualità superiore, oppure, quando prodotto nei villaggi, con tutto ciò che capita), al centro della tavola vassoi con frutta e verdura e nel proprio piatto crema di yogurt, formaggio di capra, due fette di carne, due salamini, cetrioli ed insalata russa.
Dopo circa un’ora è portato un secondo piatto con carne di manzo e patatine fritte, e una salsa agliata (Tave Theu) servita in ciotole di terracotta che è una vera squisitezza; a breve distanza di tempo è servita un’ulteriore portata con costolette di agnello appoggiate su una specie di panzerotto (Burek) che contiene formaggio acido, altro piatto tipico albanese, mentre i balli proseguono senza sosta.

Ad un certo punto comincia lo show di Mario il quale, invitato da una moretta, dopo un po’ di resistenza: “Non ho mai ballato in vita mia!”, si scatena al centro della pista e sarà uno spasso per tutta la serata. Concluso il primo ballo torna al tavolo, si toglie giacca e cravatta (lui che aveva sentenziato: “Per tutta la cerimonia in giacca e cravatta, sino alla fine!”) e dopo essersi rifocillato si rialza per iniziare una nuova danza. Tutti noi ci guardiamo increduli: che gli è successo? Quando torna al tavolo gli diciamo: “Ora manca soltanto che tu beva un po’ di rakì e fumi una sigaretta!”.
“Giò, accendi una sigaretta!” ordina Mario a sua moglie tra lo stupore generale, la prende in mano mettendosi in posa (oh, senza portarla alla bocca, ché altrimenti mi sarei stracciato le vesti...), qualcuno gli appoggia di fronte una bottiglia di rakì e cominciamo a scattare foto a raffica. “Se le fate vedere a Brescia siete morti!” minaccia Mario.
Noi, che non ce la facciamo più dal ridere, gli rispondiamo che non sarebbe male Timbuctù per esercitare la sua professione, mentre discutiamo sulle gigantografie che lo immortalano, cioè se sia più opportuno collocarle all’entrata della città, o in tutte le vie, ed i filmati che lo ritraggono così scatenato, siano da mandare in onda prima o dopo i telegiornali sulle tv locali...

L’orchestra suona imperterrita, inframmezzata dalle gag di due comici e qualche canto in italiano, ed anche il nostro gruppo sarà costretto, dopo aver partecipato alle danze, a salire sul palco per cantare una canzone.
Siamo esausti, poco dopo le due chiedo a Grazia se possiamo salire in camera, non ce la faccio proprio più. Salutiamo Elsa ed Alessandro, felici e raggianti, e andiamo a letto.
L’ultima cosa che sento, verso le tre, è “Mamma” cantata dagli italiani, che hanno monopolizzato il palco: Alberto ha cantato da solo “Azzurro” ed infine verso le quattro di mattina la cerimonia è terminata.


Tratto dal volume “Ai cinquanta ci sono arrivato” – Ed. Liberedizioni
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