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06 Aprile 2015, 06.43

Racconti del lunedì

Il perdono

di Ezio Gamberini
Arturo Pani conduceva con i genitori un piccolo bar, proprio a ridosso della grande fabbrica che dava lavoro a centinaia di persone...


...Il piccolo immobile, che conteneva a piano terra l’esercizio e a quello superiore l’abitazione della famigliola, aveva l’ingresso a sud, mentre confinava a nord con un prato incolto, a est con il parcheggio della fabbrica e a ovest con il condominio dei “cervelloni”.
Tutta gente altolocata, i quattro condomini che abitavano l’elegante palazzina, ma quello che interessa a noi e a questa storia è conoscere il professor Augusto Minelli Comotti, il cui appartamento a piano terra confinava con il bar di Arturo.
Forse fu proprio il fatto di possedere due cognomi, che si enunciavano in modo così altisonante, a inculcargli sin da piccolo la convinzione di essere sempre e comunque “superiore” a tutti.
Per sua fortuna sposò una “santa”, una buona e brava ragazza che sopportava tutto in silenzio. Niente figli, per carità, ché avrebbero dato troppo disturbo.  

Il professore era veramente insopportabile, prima di tutto con i suoi allievi, che tartassava in ogni modo, e poi, quando era a casa, continuava a lamentarsi con Arturo e i suoi genitori per qualsiasi motivo: troppo chiasso, biciclette e motorini davano fastidio e ostruivano il passaggio, il cane che continuava ad abbaiare, le piante a ridosso del confine sembravano addestrate a perdere foglie che andavano tutte ad ammassarsi nel suo giardino; certe volte, quando apriva le finestre per urlare in direzione del bar, diventava rosso come un peperone, le vene del collo diventavano grosse come dei tralci di vite e sembrava che potessero scoppiare da un momento all’altro!

La faccenda andò avanti per anni e anni.
Arturo non ce la faceva più, odiava il professore con tutte le sue forze e lo avrebbe fatto a fettine, ma la sua mamma, mentre il papà era già passato a miglior vita, continuava a rincuorarlo: “Porta pazienza Arturo, porta pazienza…

E il barista fu davvero bravo, nonostante tutti i problemi che lo assillavano, perché sopportò le lamentele dell’insegnante, sempre più astioso e cattivo, per molti anni ancora.

Poi anche la sua mamma lo lasciò, dopo essersi spenta come una candelina, e allora chiuse baracca e burattini e se ne andò a vivere lontano.

Al professore non parve vero, almeno all’inizio, di non doversi più sgolare per redarguire il vicino.
Poi, dopo un po’, non ci fece quasi più caso, ma ogni tanto qualcosa gli rodeva dentro.

Anche ad Arturo qualcosa rodeva dentro, da quando se ne era andato un paio di anni prima.
Ma quella Pasqua successe qualcosa che aveva dell’incredibile: l’Angelo del Signore, che annunciava la resurrezione di Gesù, parve soffiare sul volto dell’uomo, mentre assisteva alla solenne funzione serale. “Lo perdono, lo perdono sinceramente e voglio vivere in pace con chiunque”, gli sgorgò dal cuore, e da qual momento visse davvero sereno e in armonia con il suo prossimo, ma soprattutto con se stesso.

Già da un anno la moglie di Augusto Minelli Comotti se ne era andata per una brutta malattia, che era durata quasi due anni e che i due coniugi avevano trascorso tristemente, cupi e sconfortati, senza speranza.
Il professore era proprio uno straccio, e al culmine della disperazione si chiese perché avesse dentro tanto odio. Si convinse che doveva cercare Arturo, per chiedergli perdono per tutto il male che gli aveva fatto. Si affannò per rintracciarlo, e alla fine riuscì a scoprire dove viveva. Andò a trovarlo, senza alcun preavviso, e quando bussò alla porta, Arturo fu sorpreso nel vederlo, ma lo fece accomodare. “Sono venuto a chiedere il tuo perdono” esordì senza preamboli il professore. Arturo lo guardò con tenerezza: “Ma io ti ho già perdonato!”.

Quando?”, gli chiese sbigottito.

“E’ successo a Pasqua, tre anni fa: è stato un Angelo…”.

A Pasqua di tre anni fa? A Pasqua di tre anni fa?”, balbettò quasi incredulo il professore. Si alzò, chinò il capo e se ne andò senza salutare.

Proprio quel giorno di Pasqua, tre anni orsono, sua moglie accusò la prima fitta al ginocchio. Un dolore lancinante e insopportabile.
Gli esami fatti nei giorni successivi condussero a un verdetto agghiacciante: un tumore osseo, inesorabile, che non lasciava scampo. Al massimo sarebbe durata un anno e mezzo, due.

L’odio che pervase il professore dopo quella visita fu di una virulenza inaudita:E’ stato lui, altro che perdono, è stato lui!”, e questo fu il sentimento che lo accompagnò, nei giorni che si accumulavano con indolenza, uno dopo l’altro, avvizzendo insieme al trascorrere delle stagioni, fino a quando diventò vecchio e decrepito.

Non aveva quasi più fiato quando, come un ladro, senza fare alcun rumore, la notte di quella sua ultima Pasqua l’Angelo del Signore gli soffiò sul viso.
Il vecchio aprì gli occhi, parve che tutto si sciogliesse, dentro di lui, e con un fil di voce sussurrò: “Lo perdono, lo perdono…”.

Lo stesso soffio raggiunse Arturo, che immediatamente si sentì riscaldare il cuore, perché quel refolo divino fu latore di uno splendido messaggio: quella notte, il professor Augusto Minelli Comotti spirò in Grazia di Dio.

Non per le opere saremo salvi, ma per la fede, il perdono, e la misericordia…

 

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