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13 Aprile 2013, 09.00

L'angolo del filosofo

Le implicazioni politiche di metodologie differenti

di Alberto Cartella
Nella riflessione del giovane filosofo la sottolineatura di come ci sia qualcosa che sfugge nel discorso, che non appartiene all'essere parlante, non è l'essere parlante. Poiché le cose non coincidono con ciò che noi pensiamo sulle cose
 
Se si fa riferimento al lavorio, a ciò che si sottrae al dovere del lavoro senza opporsi a questo, si tratta del disfarsi da se stessi. Ciò vuol dire deporre la volontà; la volontà non è mai buona.
 
La volontà è la coscienza, ma non intesa come coscienza in sé, ma la coscienza civile, la coscienza di questa cosa, la conoscenza di quest’orologio. Il riferimento è all’incoscienza, all’abbandono. Se noi siamo l’abbandono, non siamo più noi.
 
L’esistenza è una costruzione: per porre un “esiste” bisogna anche poterlo costruire, cioè saper trovare dov’è questa esistenza. L’esistenza riguarda la nostra capacità di mettere in relazione. La cosa stessa non è dell’ordine del linguaggio.
 
Si parla di Cosa e non delle cose perché la differenza è già un’idea: il tavolo non sa nulla del suo essere differente dal camino o da qualsiasi altro oggetto, non sa di esistere, siamo noi che parliamo della sua esistenza. Questo non significa che noi col pensiero possiamo cogliere sempre soltanto le relazioni fra gli elementi dell’essere concependoli come un nucleo oscuro in sé esistente, bensì che noi solo attraverso la categoria di relazione possiamo giungere alla categoria di cosa (Ernst Cassirer). L’essere non pensa. La Cosa è impensabile.
 
Niente è se non nella misura in cui si dice che è. Il linguaggio non esiste (tenendo presente il suddetto riferimento all’esistenza). Il linguaggio è quel che si cerca di sapere circa la funzione di ciò che non è riducibile nel linguaggio. Il linguaggio non è una nostra proprietà, noi nasciamo nel linguaggio, il linguaggio ci precede.
 
C’è qualcosa che sfugge nel discorso. Il discorso non appartiene all’essere parlante, non è l’essere parlante. Il riferimento è agli effetti di ciò che non è riducibile nel linguaggio. Essi sono degli effetti che sono affetti. Il linguaggio non è soltanto comunicazione. Anche se il linguaggio è tutto ciò che abbiamo questo non vuol dire che il linguaggio sia tutto.
 
Quel corpo che mi sta di fronte non è lì soltanto a comandare segretamente la visione per soddisfare l’esigenza di una coscienza che vuole vedere ciò che lo sguardo è chiamato a significare e quindi non soltanto a comprendere, ma anche a credere di ricordare.
 
Fra risolversi nella condanna del nazismo e giustificarlo il passo è molto breve. Per il nazista l’ebreo era un parassita e riguardo all’immaginario legato al parassita la conseguenza logico-razionale che ne derivava è che doveva essere schiacciato. Quel corpo che stava di fronte al nazista era risolto dal suo giudizio. Il nazista giudicava e puniva indifferentemente quei corpi, si risolveva in ciò che sapeva e che riconosceva, ovvero che gli ebrei erano dei parassiti da schiacciare, risolvendo finalmente (soluzione finale) quel punto che si sottrae al far coincidere qualcuno con il proprio giudizio. L’ebreo per il nazista era contraddittorio per natura e per questo doveva essere eliminato senza discussioni.
 
Non posso perdonare a un nazista quello che ha fatto. Non avrò neanche un atto retributivo. L'atto retributivo non è risolutivo di quello che ha fatto. Si tratta di un punto comune di responsabilità di ciò che i nazisti hanno fatto.
 
Le cose non coincidono con ciò che noi pensiamo sulle cose. E noi pensiamo nel linguaggio: quando pensiamo a qualcosa, ce lo diciamo mentalmente.
 
Non si potrà rifare, se non rifondare in modo rigoroso un discorso sul soggetto, o anche su ciò che prenderà il posto (o rimpiazzerà il posto) del soggetto se non attraverso l’esperienza di una decostruzione di cui bisogna ricordare ancora una volta, a quelli che non vogliono leggere, che essa non è né negativa, né nichilista e neanche di un nichilismo pio. Un concetto (cioè anche un’esperienza) della responsabilità è a questo prezzo. La responsabilità è eccessiva o non è responsabilità (Derrida).
 
Queste considerazioni sono state rese possibili dal guadagno di pensiero che ho ricevuto dai filosofi Jacques Derrida, Ernst Cassirer, Carmelo Bene, Riccardo Panattoni e Massimiliano Boventi.
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