Una profonda riflessione del giovane filosofo Alberto Cartella sulla vita come creazione e su quel "granello di follia" che contraddistingue il cammino di ciascuno di noi
Il divenire non è l’andare e venire delle cose dal nulla, ma è un incremento creativo della novità. Questa frase (presente nell’articolo precedente “Divenire e realtà”) cadendo nell'inganno dell'immediatezza potrebbe sembrare molto astratta, ma tentando di sottrarsi ad esso ciò ci rimanda al divenire come creazione.
La creazione non è l'andare e venire delle cose dal nulla ma è il movimento del pensiero; il pensiero diviene. Vita e pensiero, sono in due. Noi siamo là dove non pensiamo. Non c'è cosa fatta, non c'è via preparata, non c'è modo o lavoro finito per il quale si possa giungere alla vita, non ci sono parole che possano dare la vita: perché la vita è proprio nella creazione, nel non adattarsi a nessuna via: la lingua non c'è ma bisogna crearla, bisogna creare il modo. Nell'oscurità crearsi da sé la vita.
Il suddetto rischio di cadere nell'inganno dell'immediatezza riguarda l'ignoranza totale di ogni presupposto. La coscienza presuppone l'esperienza e ogni esperienza non può che essere soggettiva. Non c'è esperienza oggettiva, altrimenti si ignorerebbe il processo costruttivo della mente.
La vita è creatrice di forme. La convergenza delle forme materiali del mondo fisico di cui fa parte l'organismo e delle forme atemporali costruite dal soggetto sembra in linea di principio comprensibile. Ciò che è incomprensibile è quel granello di follia che è fonte di fascino. Non vedendo quel po' di demenza non c'è incontro. Il fascino è legato al perdere un po' la testa.
Quando diciamo a qualcuno “sei fuori di testa” forse è proprio lì che c'è del fascino. Si tratta di sapere a quali condizioni si può esercitare il pensiero. Le persone hanno fascino solo per la loro follia. Il vero fascino delle persone è l'aspetto in cui perdono un po' la testa, quando non sanno più bene che cosa stanno facendo. Se non viene colto il granello di follia di qualcuno, non lo si può amare. Siamo tutti un po' dementi.
Colui che tenta di risolvere questo aspetto è l'intellettuale, il quale in sociologia viene definito come un esperto la cui competenza non è in genere richiesta dalla società. L'intellettuale è un individuo che rifiuta di integrarsi nella società. Il suo rifiuto di essere un individuo socializzato esprime la sua mancanza di integrazione teoretica nell'universo della sua società. Gli intellettuali si ritengono speciali, migliori di tutti gli altri; questo vuol dire soprattutto escludere chi non la pensa come loro e non si può nemmeno immaginare fino a che punto si possa arrivare.
L'esperto è colui che ha la capacità di giudizio a livelli altissimi. Qui però si sta facendo riferimento a uno sforzo in controtendenza rispetto a questo aumento della capacità di giudizio, si tratta di lasciar agire uno spazio comune, impersonale della nostra soggettività, uno spazio fattivo anomico in cui non ci sono regole e non c'è una prescrizione.
La società riguarda degli individui che si riconoscono intorno a un ideale; mentre l'aspetto comune, folle è legato alla comunità come essere-insieme. L'essere in comune non è un insieme di individui, non è una somma, ma è un depotenziamento della soggettività. Non ci si può appropriare di ciò che è comune.
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