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29 Ottobre 2013, 09.00

L'angolo del filosofo

La crisi del processo educativo

di Alberto Cartella
Una digressione del filosofo Alberto Cartella sul degradarsi del processo educativo, allorché all'aspetto linguistico non sa porre accanto anche il preminente aspetto visivo, quello legato alla necessità dell'incanto, ossia l'infanzia nello sguardo
 
Quando determino qualcosa nego ciò che non è. Ma ciò che determino, anche attraverso la negazione di ciò che non è, è riducibile a questa determinazione?
 
Ciò che determino è legato alla mia capacità di determinare, la quale è il nostro mettere in relazione, il nostro allontanamento dal dato a vedere. Ogni processo educativo ha una funzione di preparazione all'avvento di questa capacità, la quale non è un cominciamento assoluto, ma ha a che fare con un processo, con una costruzione.
 
Il problema non è tanto chiedersi se è possibile definire in una proposizione l'essenza di qualcosa, ma se è la costruzione della suddetta capacità ad implicare ciò che non è riducibile ad essa.
 
La relazione è legata al fatto che ciò che determino, per esempio la scrivania sulla quale sto scrivendo, lo determino in relazione a ciò che non è la scrivania sulla quale sto scrivendo, per esempio la sedia. Ma la Cosa è riducibile alla sua determinazione o è anche pura singolarità, ovvero qualcosa che non è riducibile alle nostre realizzazioni?
 
Questa pura singolarità non è niente, che vuol dire che non è né questo né quello che si può esprimere. Ma questo niente incide sull'agire, è un inciampo nell'iperattività della nostra esistenza. Questo niente è la stanchezza che il tempo che ci viene preso per ciò che dobbiamo fare comporta. Si tratta di una stanchezza in cui entrare dentro, della nostra festa, della nostra salvezza immanente.
 
Questo niente è anche il punto della speranza, la quale non riguarda ciò che non è e che speriamo che sia, ma è una speranza fattiva legata allo spazio anomico dell'essere insieme, il quale non è risolvibile in ciò che dobbiamo fare. Si sta parlando di un punto comune e non di un punto in comune, ovvero non di una speranza proiettata a ciò che deve venire.
 
Nell'esercizio per la conoscenza si va a leggere e quindi a riconoscere ciò che abbiamo davanti. Ma simultaneamente a questo non è altrettanto importante il luogo in cui vado a ritrovare il mio incanto? L'incanto è fin da bambini e non è nient'altro che l'infanzia dello sguardo che non è lo sguardo infantile, non è lo sguardo del bambino.
 
Rispetto alla conoscenza sento la necessità dell'incanto, la possibilità di ritrovare l'infanzia dello sguardo con cui guardare gli oggetti, la realtà. Si tratta di lasciar agire l'irriducibilità di ciò che ho davanti ad un sapere che lo determina; questo non vuol dire rinunciare ad esso. Lo spazio della crisi del sistema del giudizio e delle rappresentazioni che questo comporta riguarda proprio questa esitazione nella determinazione.
 
Tornando al processo educativo, si tratta dell'urgenza del richiamo a non risolvere lo spazio che si determina come educativo come spazio in cui si potenziano le capacità di conoscenza, linguistiche e di riconoscimento. L'aspetto visivo, dell'incanto, è altrettanto importante di quello linguistico e risolverlo vorrebbe dire andare incontro ad un vuoto totale caratterizzato dal non fare altro che giudicare.
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