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05 Maggio 2014, 09.37

BLOG. L'angolo del filosofo

La competizione degli amanti

di Alberto Cartella
Un'acuta riflessione di Alberto Cartella attorno alla muta latente violenza che in ogni rapporto s'insinua e che tutti gli uomini celano con la menzogna del linguaggio

Superare i propri limiti vuol dire guardarli in faccia, che non vuol dire cancellarli, perché se si tentasse di farlo questi ritornerebbero in maniera devastante. Non è necessario rassegnarsi, ma dobbiamo riconoscere che la mancanza di rassegnazione non ci procura alcun sollievo.

La tentazione, la trasgressione, che coincide con la pigrizia, fa avvertire almeno il vantaggio dell'apparente inferiorità. Ma si tratta di una menzogna, la competizione è aperta.

La bellezza delle cose è il vero limite del linguaggio (l'ultima frase dell'articolo precedente). Ma il silenzio non sopprime ciò che il linguaggio non ha il potere di affermare: la violenza è non meno irriducibile della morte, e se il linguaggio elimina con un espediente l’universale annientamento (l’opera serena del tempo) è solo il linguaggio a soffrirne, a esserne limitato, non il tempo né la violenza.

La violenza è muta. Il linguaggio comune si rifiuta di esprimere la violenza, alla quale concede solo un’esistenza colpevole. Esso la nega privandola di ogni ragion d’essere e di ogni giustificazione. Se tuttavia, come accade, essa si produce, questo significa che si è commesso un errore, subentra il senso di colpa. Se si vuole liberare il linguaggio dal vicolo cieco in cui si trova, è necessario affermare che la violenza appare comune a tutta l’umanità, che l’intera umanità mente per omissione e che il linguaggio stesso si fonda su una menzogna.

La sorte degli amanti è il male (lo squilibrio) al quale li costringe l'amore fisico. Essi sono condannati a guastare senza fine l'armonia tra di loro, a combattersi nella notte. Si uniscono a prezzo di una lotta grazie alle ferite che si producono. La bellezza negatrice dell’animalità, che risveglia il desiderio, sfocia nell’esasperazione del desiderio stesso, nell’esaltazione della parte terribile che è in ognuno di noi! Ogni uomo nasconde in cuor suo un porco che sonnecchia. Il vizio è la verità profonda, il cuore dell’uomo.

Nei nostri giudizi, quando di qualcuno diciamo «che supponente», dimenticando il sudicio fondo del nostro cuore, in realtà ci avviciniamo indifferentemente alle indifferenze manifeste che denunciamo. Vi è nell’umanità l’esistenza di un eccesso irresistibile che la induce a distruggere e la pone in accordo con l’incessante e inevitabile rovina di tutto ciò che nasce, cresce e si sforza di durare.

Lo spirito umano ha sempre paura di se stesso. L’uomo non è in grado di illuminare e di dominare ciò che lo spaventa. L’uomo non può sperare in un mondo in cui non vi sia più motivo di aver paura. Ma l’uomo può superare ciò che lo spaventa, può guardarlo in faccia.

Sacro è il desiderio in noi di consumare, di rovinare, di dare alle fiamme tutte le nostre risorse; è la felicità che ci procura la consumazione senza consumo che ci appare divina, sacra e che sola decide in noi atteggiamenti gratuiti, superflui, non servendo che a se stessi, non essendo mai subordinati a risultati ulteriori. Una umanità che si ritenesse estranea a tali atteggiamenti, rifiutati dal primo movimento della ragione, intristirebbe. Si tratta allora di ridere di se stessi.

Tradirei me stesso se non vi mettessi in guardia contro eventuali fraintendimenti di quello che ho scritto.
 
Queste considerazioni sono state rese possibili dal guadagno di pensiero che ho ricevuto da George Bataille e Gilles Deleuze.
 
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