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08 Marzo 2013, 11.00

L'angolo del filosofo

Il corpo e lo specchio

di Alberto Cartella
Una riflessione intorno al concetto di corpo per cui nella nostra società cerchiamo di corrispondere a dei modelli, tanto che l'immagine che noi abbiamo del nostro corpo non viene restituita dallo specchio, bensì da uno schema corporeo introiettato nel nostro cervello
 
A volte si crede di guardare mentre invece non si fa altro che immaginare.
 
Nella nostra cultura il rapporto con il proprio corpo è un rapporto di alterità. Il corpo viene guardato e commisurato sulla base di modelli, per esempio quelli della pubblicità. Cercare di corrispondere a dei modelli vuol dire costruirsi attraverso il riconoscimento sulla base di questi modelli. O sono quella cosa lì o non lo sono.
 
Si tratta di un dualismo che spesso viene interiorizzato. Ciò a cui si fa riferimento è la norma, l’essere normali; vi è la produzione di barriere invisibili ma efficaci. Sono gli individui stessi a conformarsi spontaneamente alla norma, al modello normale e normalizzante, il quale opera attraverso la creazione di confini e frontiere che passano all’interno di ciascun individuo.
 
Per esempio la lotta contro il fumo, condotta in nome della sanità del corpo sociale, oltre a colpevolizzare il fumatore, ritenendolo il solo responsabile di malattie a cui possono invece contribuire anche altri fattori, come l’inquinamento, autorizza a dirci come dobbiamo vivere e quale uso dobbiamo fare dei nostri polmoni: la garanzia di scientificità e l’appello all’autorità della medicina fanno sì che si costituisca un corpo sociale in cui un potere autorizzato si incarica di esaminare i nostri corpi e le nostre vite in ogni loro più minuto recesso.
 
Inoltre, si tratta anche di mangiare determinati cibi piuttosto che altri e di esercitare insomma una sorveglianza permanente sui propri comportamenti; ciascuno è tacitamente indotto a sorvegliare costantemente la propria vita per renderla conforme alle esigenze del corpo sociale (cfr. Wanda Tommasi).
 
A volte ci sfugge che l’immagine che noi abbiamo del nostro corpo non ce la dà lo specchio. Noi non ci relazioniamo alla nostra immagine, ci relazioniamo allo schema corporeo che abbiamo nel nostro cervello.
 
Con il suo corpo l’immagine costituisce il punto di crisi rispetto a ciò che la lega all’immaginario. È una convinzione della nostra cultura che le immagini esistano soltanto all’interno di un immaginario che le assorbe totalmente per dar loro una funzione, un senso, un valore. 
 
Solo il movimento dello sguardo, che porta con sé l’istanza dello scorrere, viene tradizionalmente ritenuto in grado di risalire al significato più profondo delle immagini.
 
L’immaginario dello sguardo pensa di poter rendere vive le immagini, portandole al movimento che è loro proprio. Esso finisce tuttavia per privarle di qualsiasi traccia della loro presenza corporea. Un immaginario non può che consegnare tutte le immagini a una temporalità astratta da ogni effettivo decorso temporale (cfr. Panattoni e Solla).
 
I corpi non sottostanno a una semplice visione d’insieme, ma qualcosa in loro si mostra irriducibile a ogni sintesi linguistica. Nel caso dello specchio non siamo sicuri di essere completamente invasi dalla visione che si sta vedendo, al contrario s’introduce una distanza tra il soggetto che guarda e gli occhi che stanno vedendo. Questo accade perché sembra essere soltanto il soggetto dello sguardo a dettare agli occhi il postulato della loro visione, quello che devono credere di vedere grazie all’attribuzione di un riconoscimento che sopraggiunge a significare i termini stessi di quella visione.
 
Guardarsi allo specchio è un dramma (non una tragedia) in cui lo sguardo nel modo più veloce possibile attribuisce il significato di un riconoscimento nominale; e simultanemante l’occhio si attarda, rispetto all’azione di questo riconoscimento, rimanendo incantato nel rispecchiamento di una forma visiva perfettamente identica al dato da vedere.
 
Per quanto riguarda il corpo si passa da un corpo-in-frammenti alla “forma ortopedica” di questo. La “forma ortopedica” è da intendersi pensando per esempio al ruolo della scarpa ortopedica che cerca di adattare il piede infermo a una forma corretta. Allo stesso modo, il soggetto, identificandosi (parzialmente) con l’immagine riflessa, è come se imparasse a mettere i piedi nella posizione corretta, ovvero impara a mettere l’Io nello stampo immaginario.
 
Quelle che riteniamo essere le nostre corrette visioni, però, sono in realtà delle forme ricostruite che portano sul proprio fondo una forma visiva. Da una parte l’immagine si solleva verso lo sguardo come significato di ciò che vediamo, dall’altra l’immagine che in quanto tale continua a sprofondare in se stessa (cfr. Panattoni).
 
Queste considerazioni sono state rese possibili dal guadagno di pensiero che ho ricevuto dai filosofi Riccardo Panattoni, Gianluca Solla e Wanda Tommasi.
 
 
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