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27 Novembre 2012, 09.00

Filosofia

Ancora sul concetto di 'verità'

di Alberto Cartella
La lunga dissertazione di questa settimana chiarisce alcuni punti del precedente articolo, tornando a sviscerare il concetto di 'verità' anche in relazione alla violenta trappola della soggettività e all'uso che se ne fa con una mediocre filosofia
 
Dire che la realtà si fonda su un discorso e che costruiamo la realtà e la nostra identità in base al discorso non vuol dire che con questo si faccia riferimento a come stanno le cose. Appunto perché la realtà è una costruzione e ciò che chiamiamo realtà non sono le cose stesse. La prima cosa che dobbiamo fare quando sentiamo parlare di realtà è prendere atto che ci troviamo di fronte a un dire.
 
Noi costruiamo discorsi i quali fondano la realtà e spesso ci inganniamo sul fatto che i nostri discorsi coincidano con come stanno le cose. Se non ci inganniamo in tal senso i nostri discorsi possono essere dei gesti, mentre se ci illudiamo i nostri discorsi diventano distruttivi. Anche se ci sono gesti e gesti. C’è un gesto che non va oltre e che non incorre nello sbaglio di implicare che il pensato è a immagine del pensiero. Mentre in altri gesti vi è questo inganno. Questo voleva dire la frase dell’articolo precedente “L'eterno è una creazione e credere che le cose stiano eternamente e che questa creazione coincida con l'essere delle cose costituisce la radice della violenza”. Si tratta della creazione di nient’altro che di significanti. Non appena questa creazione avviene, essa si articola nella nominazione di ciò che è.
 
Le cose non sono dell’ordine del linguaggio, sono ciò che non emerge a livello di linguaggio. Le cose o la Cosa (perché la differenza è già un’idea) non sono una realtà ineffabile o noumenica. Essa patisce dell’azione del dire, il quale rende la Cosa nient’altro che un vuoto, un oggetto perduto. A me interessa insistere sul resto, cioè ciò che resta di ciò che si perde. Ciò che si è perso non ritorna, è il non realizzato che non torna in maniera cosciente, ma rimane perdita. Ciò che è perso non torna e il senso di perdita è aleatorio. In ciò che noi selezioniamo e a ciò a cui noi diamo significato per la nostra vita c’è qualcosa che viene perso irrimediabilmente e che non fa parte di ciò che è funzionale alla costruzione della nostra identità. Questo non vuol dire che questa costruzione non sia importante o che ci si debba opporre a questa costruzione e tanto meno che essa debba essere superata.
 
Quando si dice che la realtà si fonda su un discorso si fa riferimento al metodo, alla forma e non al contenuto. Lo sbaglio sta nell’implicare che il pensato sia a immagine del pensiero, cioè che l’essere pensi.
 
Ciò che abitualmente chiamiamo realtà e che diamo per scontata è una presa immaginaria. I fatti sono dell’ordine dell’immaginario. Sono ciò che è facile. Chi crede che il dato di fatto coincide con la verità pensa anche che l’immagine allo specchio coincida con noi stessi.
 
L’ontologia è una visione filosofica, mentre far riferimento al metodo, alla forma e non a un contenuto che ci dice come stanno le cose è la filosofia nel modo politico, legato al costituirsi della soggettività. Questo non vuol dire che il contenuto non ci sia o che sia secondario (non si tratta del primario e del secondario) e non sto dicendo nemmeno che non abbia anch’io la mia ontologia. Anche il discorso che sto facendo qui è una costruzione con un contenuto, ma è una costruzione consapevole che confida che ciò che si sta dicendo qui faccia sedimentare quel vago senso di perdita che ci accompagna e che non va risolto. Questo senso di perdita siamo stati formati a risolverlo.  
 
Il senso di perdita in quanto tale incide sul nostro agire; per esempio porta a non semplificare le cose e a non tagliare di netto la complessità di un problema. Questo non vuol dire essere indecisi o incerti. L’esitazione non è un sintomo, ma è la condizione della democrazia. Essa lascia agire un ritardo costitutivo della nostra soggettività; si attarda in un rispecchiamento di noi stessi.
 
Un metafisico chiederebbe: ma cos’è questa esitazione? Cos’è quella faglia? Non è niente, non si può sostanziarla. Si tratta di una potenza dopo l’atto, che però non è un residuo del possibile. Ciò che rimane in potenza è ciò che non è mai stato. Non si tratta di ciò che potevo fare e che non ho fatto. Ma in ciò che ho fatto c'è qualcosa che non coincide con ciò che ho fatto. La soggettività non coincide con quell’azione. Non lasciando agire questo niente non si fa altro che giudicare. Per esempio se ci si trova davanti a qualcuno che è stato giudicato un criminale non si fa altro che dire: «Tu sei un criminale, questo è un dato di fatto che coincide con il vero». Se così fosse si penserebbe anche che quel criminale va eliminato, esso è irrecuperabile. È chiaro che il numero di pensieri impliciti in una tale concezione del mondo è propriamente incalcolabile. Si tratta sempre dello sbaglio dell’equivalenza fra pensiero e pensato. Questa è la radice della violenza: credere che la logica coincida con la verità della soggettività, credere che la logica esaurisca il soggettività, la quale non è l’io.
 
I nazisti all’inizio sparavano agli ebrei, poi si sono accorti che stavano affrontando una spesa eccessiva per l’acquisto delle pallottole, allora hanno deciso di metterli nelle camere a gas per spendere meno. Questo è un ragionamento logico. Se si riduce tutto alla logica allora bisogna assecondare anche questo ragionamento.
 
Ripeto nuovamente che non si tratta allora di opporsi alla logica, ma di intaccarla senza dissolverla. Non si tratta dell’irrazionale o dell’illogico, ma si tratta di una logica della sospensione. Non si sta dicendo che la logica debba essere superata, ma c’è qualcosa che si sottrare alla logica, anche se è in costellazione con la logica ed proprio questa costellazione che rende mobili.
 
Si potrebbe dire anche che io non sono là dove penso, ma il mio essere trascende il mio pensiero, l’essere del soggetto è solamente là dove il pensiero della ragione egoica si eclissa. Lo sbaglio sta nell’implicare che l’essere pensi. Ciò che noi pensiamo sull’essere, anche che l’essere esiste, è una supposizione. Per dire che qualcosa esiste bisogna anche poterlo costruire, cioè saper trovare dov’è questa esistenza.
Quello che si sta dicendo qui è detto in termini funzionali. Nel costituirsi della soggettività avviene la scissione. Si tratta di un vuoto, di un aspetto atemporale, aleatorio che fa parte della nostra soggettività. Questo non vuol dire che la soggettività sia qualcosa di oggettivabile, ma vi è una mancanza costitutiva, vi è un’impossibilità a dire, la quale ci spinge a parlare. Se ci fosse coincidenza tra le cose e la descrizione anche mentale che noi ce ne facciamo non inizieremmo nemmeno a parlare.
 
Per quanto riguarda l’immagine c’è un puramente visivo che non coincide con ciò che io come coscienza sto vedendo. Nel momento in cui descrivo ciò che sto vedendo dell’immagine si vede nulla o ben poco. C’è un vuoto che appartiene all’immagine in rapporto alla mia visione. Questo non vuol dire che la descrizione che ruota attorno a questo vuoto sia ininfluente.
 
Ciò di cui si sta parlando qui è qualcosa che riporta la filosofia non ad essere una visione fra le altre, un punto di vista, ma al suo considerare la relazione in quanto tale, il rapporto in quanto tale, l’immagine in quanto tale, il senso di perdita in quanto tale. La questione è di forma; non si tratta della visione ma del visivo.
 
Dico questo per dire che nell’affermare che la realtà si fonda su un discorso non c’è nulla di scettico e tanto meno di relativistico, non vuol dire che tutto è relativo. La verità c’è. Essa non ha contenuto, non è rappresentazione, non è una verità oggettiva o oggettivata, ma c’è. Essa è uno spostamento di posizione, è un effetto di spostamento ed è legata al niente di rappresentabile. La verità la si può dire solo a metà. Non si può entrare a piedi pari nella verità, la verità non è come stanno le cose; essa si vela e si disvela.
 
La verità è qualcosa che sentiamo come vero ma che non riusciamo a dire o a rappresentarci, ma orienta i nostri tentativi di significazione. La significazione è ciò che ha effetto di significato. Il rapporto tra il significato e ciò che si trova lì come terzo indispensabile, vale a dire il referente (la Cosa alla quale si faceva riferimento all’inizio dell’articolo), è precisamente il fatto che il significato lo manca. Il significato manca la cosa. Non si può dire tutto.
 
La filosofia nel modo politico non è una visione filosofica accanto a quella psicologica, antropologica, sociologica. Le scienze umane inglobano ogni comportamento senza presupporre l’intenzione di un soggetto. È per questo che è ridicolo chiedersi qual è il fondamento della filosofia, perché essa è proprio ciò che mette in discussione il fatto che ci sia una finalità nelle cose e che ci sia un’equivalenza fra pensiero e pensato. Le scienze umane (tornando alla forma e al contenuto) sono contenuto che per andare avanti nella sua progressione dà per scontata la forma. La filosofia invece si interroga ogni volta da capo sulla forma in quanto tale, mette in relazione ed ha a che fare con il costituirsi della nostra soggettività, il quale credo che non debba rimanere in secondo piano rispetto alle utilissime costruzioni-astrazioni delle scienze specializzate sorrette da un’ideale di conoscenza. Questo va al di là di una banale disputa fra i saperi, i quali sono importanti e utili. Sguardo, occhi e conoscenza stanno insieme, non sono in contrasto, ma si elidono. Si tratta di non far diventare come qualcosa da risolvere il vuoto che ci accompagna.
 
Ripeto che quello che è stato detto qui lo si può vedere per esempio per quanto riguarda il recupero del criminale; se si pensasse che quest’ultimo coincide con l’azione ha commesso e che è stata giudicata criminale, allora il criminale andrebbe eliminato. Mentre c’è qualcosa nell’azione che non sta all’azione stessa. Ciò a cui sto tentando di approssimarmi non è il decisivo, ma è ciò che nel decisivo non sta al decisivo stesso.
 
Come ultima cosa volevo sottolineare nuovamente che un filosofo mediocre non inventa alcun concetto, usa idee già pronte e ha delle opinioni, ma non fa filosofia. Questo non vuol dire che in questo articolo ci siano dei concetti creati. L’ambito è ancora quello del lungo tirocinio della storia della filosofia. Esso è un doppio ambito di apprendimento: la costituzione di problemi e la creazione di concetti. La filosofia è rigorosa come la matematica. Nella filosofia non c’è mai il caso, non succede mai niente a caso. Ciò che invece differenzia la filosofia dalla matematica è una questione di potenza: la matematica se considerata nella sua funzionalità (quindi non si sta parlando della matematica pura, la quale è più vicina alla mistica) è una delle cose più potenti che ci siano, mentre la filosofia nel modo politico è legata a un depotenziamento della soggettività che si approssima all’impersonale. Si tratta di rimanere nel linguaggio con una consapevolezza differente rispetto alla concatenazione linguistica. In questo articolo non c’è un solo fatto che non possa essere contestato.
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