Nonostante tutti i problemi economici che oggi abbiamo davanti, quello del rimedio contro la morte è ancora il più importante, è il decisivo. La filosofia si occupa proprio di questo problema: essa nasce dal terrore per la vita che è il luogo del patimento, del dolore e della morte.
Una traduzione orribile della parola filosofia è legata al sostenere che la filosofia è ciò che nasce dalla meraviglia. La filosofia invece riguarda un angosciato terrore per la vita; essa non ha nulla a che vedere con la quiete intellettuale, il filosofo non è colui che sta tranquillo nel suo laboratorio a meravigliarsi che la diagonale del quadrato è incommensurabile al lato. Il filosofo non si ferma al detto, al mito, al ‘si dice’ ma va oltre queste cose attraverso la critica, non cancellando il mito ma ponendosi in costellazione con esso.
La filosofia è espressione di qualcosa che se lo si guarda troppo da vicino sembra astratto; anche se non bisogna considerare l’astrattezza come qualcosa di totalmente negativo.
Pensiamo all’astrattezza della matematica: se un’azienda oggi volesse funzionare prescindendo dalle regole della matematica fallirebbe nel giro di poche ore. Il massimamente astratto bisogna imparare a vederlo come il più potente in quanto accoglie sotto di sé un’infinità di casi concreti ed è in grado di indicarli tutti.
Mentre per esempio l’antropologia o la psicologia sono scienze specializzate e hanno ognuna il proprio punto di vista (il punto di vista sull’uomo dello psicologo è diverso da quello dell’antropologo), la filosofia mette in relazione i diversi punti di vista. L’ascoltare della filosofia non è lasciato a se stesso. La filosofia va oltre, va al di là fino alla totalità di ciò che è per poi ritornare al frammento.
Contrariamente a quanto molti credono la filosofia non è amore per la sapienza, ma è cura per ciò che è chiaro. Infatti filos vuol dire cura, attenzione, mentre sofia vuol dire chiaro, luminoso, non in ombra. Quindi filosofia è cura per ciò che è chiaro, per ciò che è in luce.
Sin da bambini abbiamo imparato al catechismo a dire che Dio crea il mondo dal nulla. Se ci pensiamo bene molti degli uomini che oggi vivono in Occidente le cose più alte le hanno imparate da bambini al catechismo; hanno pensato al mondo, a Dio, alla creazione del mondo e poi vanno a finire in buona parte al montaggio, dove il pensiero che li guida è di ripetere all’infinito lo stesso gesto, il quale li mantiene in vita. Quest’ultimo è il lavoro, il quale come potenza interpretativa rispetto al mondo è ben misera cosa rispetto a quello che hanno imparato da bambini al catechismo sentendo parlare di tutto il mondo creato da Dio dal nulla.
Spesso oggi si pensa alla filosofia (soprattutto nei paesi anglosassoni) come una superfetazione del sapere scientifico: la scienza compie i passi concreti e poi arriva la filosofia che tira le somme; in sostanza combina cose inutili. Se la filosofia fosse questo sarebbe da lasciare da parte.
L’atteggiamento originario del pensiero filosofico è questo: è possibile vincere la morte soltanto se ciò che so di me e del mondo non è un'opinione, non è un racconto mitico, non è poesia, non è qualche cosa di prodotto dalla mia fantasia, ma è qualche cosa che si riesca a raggiungere in modo innegabile. Da ciò deriva la densità e la difficoltà della filosofia, la quale rispetto al sapere scientifico non è una superfetazione, ma è ciò che è più radicale.
Oggi la scienza riconosce la propria controvertibilità (anche se non per eccessiva modestia), mentre non bisogna mai dimenticare che il senso dell’incontrovertibilità lo ha evocato per primo la filosofia. Il desiderio di verità del pensiero filosofico che si lega a quello di politica non è dell’ordine della necessità e va anche oltre alla dinamica utile-inutile.
Si tratta di aprire uno spazio di discussione, dibattito, partecipazione: desiderio di mettere in circolo idee, di far fluire idee, azioni, pratiche. È uno spazio che si apre e che attira anche altri in una modalità libera all’interno della quale c’è sempre un’invenzione di pratiche, ovvero non è caotica; poi prende delle forme che contaminano altre situazioni, altre donne e altri uomini e hanno la possibilità di modellare degli spazi che però hanno la forza di vivere per quel tanto che il desiderio vive.
Forza di questo tipo di politica è che nasce per un movimento di desiderio, di apertura e può anche accettare di concludere alcune forme e in questo senso non ha bisogno di irrigidirsi in un’organizzazione statica. La politica quando c’è desiderio di politica sta in circolo in relazione con l’esistenza e col movimento stesso dell’esistenza.
Questo desiderio di politica si separa molto da una politica che invece ha paura di morire e che quindi si irrigidisce in forme statiche e per questo ha paura della conclusione. Invece se si affronta questa paura della conclusione come qualcosa che fa parte del movimento stesso della politica, ciò ci permette di accettare che le cose si concludano senza irrigidire certe forme ripetendole in maniera identica.
Non si tratta di una strategia rivoluzionaria, altrimenti si tornerebbe a un rapporto di mezzi per raggiungere dei fini già previsti, ma si tratta azioni politiche che nascono per un desiderio, non per l’ottenimento di scopi. Se le leggiamo come mezzi per l’ottenimento di un fine le inquadriamo all’interno di una logica di potere. Per questo si accetta che se qualche cosa si conclude poi qualcos’altro si riaprirà. Il potere nasce dal non voler far morire ciò che ami quando sta concludendosi.
Non si sta parlando qui di un’astratta volontà culturale di verità, ma di un desiderio di verità per vincere la morte, per sopportare la morte, per vincerla nel senso di sopportarla. Il problema della verità è caratterizzato da un continuo cercare e domandarsi e da inquietudine. Si possono dare risposte vere solo se si fanno domande vere, anche se si tratta di vedere quanta verità possiamo sopportare.
La verità non è qualcosa che si possiede, un oggetto di cui possa disporre, la verità è qualcuno da cui lasciarsi possedere, un mistero più grande a cui consegnarsi; non si dispone della verità, si serve la verità. La verità è legata all’onestà e quindi non al dominio ma all’umiltà.
Gli anni che abbiamo alle spalle si sono caratterizzati per una sorta di ottimismo del progresso che si è associato alla violenza delle ideologie che hanno portato a una perdita di speranza e alla distruzione della verità.
La verità è qualcuno che ci inquieta, è la nostra scelta e noi siamo responsabili verso la verità. Un atteggiamento che corrisponde a questo è quello dell’ateismo, di chi soffre dell’assenza di Dio, ovvero l’ateo pensoso. Non c’è una fine, c’è un pellegrinaggio; verso la verità si cammina sempre. Invece l’ateo che non pensa, come il credente che non pensa brancolano nel buio; essi non si pongono più domande e non consumano le scarpe sulla via della verità per continuare a cercare.
La verità è un rapporto. La verità ci possiede e non si possiede; una verità che noi possiamo già conoscere per intero è una verità che non ha più sorpresa.
L’amore è legato al tentare di essere posseduti dall’altro e il silenzio associato all’amore può essere due cose: il silenzio del mutismo dell’amore è quando non si ha niente da dire perché non ci interessa, ma c’è anche un silenzio che è la pienezza dell’amore.
Con il nostro compagno o compagna non stiamo sempre a parlare, ci sono dei momenti in cui si sta in silenzio, è bello stare vicini, in silenzio. Quel silenzio ha un’eloquenza più alta. Si tratta di prestare attenzione a ciò che è irriducibile a tutte le nostre parole, una sorta di eccedenza, di silenzio dell’ulteriorità dell’eccedenza.
Queste considerazioni sono state rese possibili dal guadagno di pensiero che ho ricevuto nelle lezioni e nei seminari con la professoressa Chiara Zamboni (docente di Filosofia del linguaggio all’Università di Verona) e attraverso l’ascolto di alcune conferenze e la lettura di alcune interviste del filosofo bresciano di fama internazionale Emanuele Severino.