(New York, New York)
“It’s the same Tony”, dovrò rispondere al cameriere che mi chiederà se preferisco bianco o rosso, mentre cenerò a Manhattan. “E’ la stessa cosa”, “l’è ac chel Tone” cioè “è lo stesso Antonio”, come si usa dire nel mio abituale indigeno dialetto quando non si vogliono indicare preferenze. Espressione peraltro usata ovunque ed in ogni epoca.
A Robespierre fu chiesto se preferiva essere impiccato o ghigliottinato; “C’est le meme Antoine”, rispose sprezzante.
Si narra che anche Nerone sia ricorso a tale gergo nel momento in cui ordinò l’incendio della capitale. Quando i suoi scagnozzi gli chiesero “Aho Nerò, da ‘ndo cominciamo a bbrucià a città?”, l’imperatore disse: “Idem Antonius est….” .
Finalmente è giunto il momento di volare oltreoceano.
L’ultimo mese, prima di partire, è stato piuttosto movimentato. Il mercoledì successivo alla mia prima maratonina, dopo due giorni di assoluto riposo, invece di pranzare vado in pista e faccio dieci giri. Una faticaccia boia.
Leggo l’annotazione sul diario: “Dopo la prossima gara una settimana di riposo!”.
Anche qui, a chi dar retta? “Il giorno dopo una gara l’ideale è corricchiare un’oretta in scioltezza”; “Dopo aver corso una gara lunga e massacrante bisogna assolutamente riposare e dar modo alle fibre muscolari di rigenerarsi ecc. ecc……”.
Proverò entrambe le cose e, come sempre, seguirò l’istinto dando ascolto soltanto alle mie sensazioni.
Per cominciare ad assumere carboidrati il primo sabato di ottobre vado a Monaco, all’Oktoberfest.
Si noleggia un pullman, ed insieme ad altri quaranta svitati si parte alle cinque di mattina. Sosta a Bolzano dove all’autogrill apriamo i tavolini da picnic e facciamo la punta a quattro o cinque salami, sei o sette chili di pane ed una cassa di Groppello del Garda.
Alle undici siamo a Monaco e riusciamo ad intrufolarci in uno dei sette capannoni. Riuscirò a bere una birra, mentre alcuni amici affermeranno di avere svuotato sette o otto caraffe.
Mah! A mezzanotte il pullman riparte ed alle cinque di domenica mattina siamo di ritorno a casa.
Nei due sabati successivi faccio due ventisei in due ore e trentacinque e due ore e venticinque minuti con i consueti otto o dieci chilometri percorsi altre due o tre volte a settimana, mentre nel penultimo sabato provo quindici giri di pista che concludo in ventisette minuti, mio record.
Nell’ultima settimana di ottobre non riesco a correre perché da lunedì a venerdì affronto con Vittorio un viaggio massacrante: in aereo fino in Romania, ma poi in macchina percorreremo innumerevoli chilometri per recarci in Ungheria e Slovacchia.
Il primo novembre, festivo, partecipo ad una gara sul lago di Garda: tredici chilometri di cui parecchi in salita. Chiudo in un’ora e sette minuti.
A questo punto ciò che si è dato, si è dato.
Arrivo alla maratona di New York dopo aver percorso circa milletrecento chilometri e perso quattordici chilogrammi e due taglie e mezza.
Ho corso un trentaquattro chilometri, tre ventisei, una decina di diciotto, qualche sedici e per il resto sedute da otto o dieci chilometri, oltre ad una maratonina ed altre due gare di dieci e tredici chilometri.
Tutto questo in sette mesi: saranno sufficienti per giungere all’arrivo, in Central Park?
Spero proprio di si, anche se gli esperti affermano che per formare un maratoneta sono necessari non meno di tre anni. Il mio primo obiettivo è quello di concluderla comunque, ed il secondo di chiudere sotto le cinque ore.
Venerdì mattina alle cinque siamo tutti puntuali nella sede aziendale per la foto di gruppo. Siam quasi belli, con le nostre giubbe rosse e tute blu. Riempiamo il pullman e via.
Poco è mancato che perdessimo l’MD80 che ci ha portato a Roma, a causa di un incidente che ha bloccato la circolazione per più di un’ora sulla tangenziale di Milano, ma alle quattordici e trenta, da Fiumicino, il Boeing settequattrosette con a bordo i maratoneti è riuscito a spiccare il volo con destinazione New York.
Dopo aver sorvolato azzurre e verdi distese, montagne e brulle pianure comincia l’oceano, che sembra non finire mai. E non viene mai buio!
Ci sorbiamo tre film – continuando a girare la manopola per sentire i film in varie lingue riuscirò a non capire una mazza - e un pranzo discreto, poi finalmente atterriamo al JFK verso le ventitre, le diciassette locali, non prima di aver risposto positivamente alle ovvie ed innocenti domande che si trovano sulla famigerata “carta verde” che dovrà essere consegnata al visto dei passaporti: “Sei sovversivo? Hai partecipato nell’ultimo anno a fenomeni di terrorismo……?”, “Oh yes!”, “….. pedofilia, cannibalismo?”, “Of course!”.
Alla dogana però mi lasciano passare soltanto perché giuro di essere un divoratore di pop-corn e chewingum: “Ok – mi fa “John Smith”, centotrenta chilogrammi di strutto col distintivo – welcome in New York city”.
Alloggiamo al Marriot Hotel, in East Side, Lexington Avenue, seicentoquarantacinque stanze, a quattrocento metri dalla quinta strada. Sono in camera con Vittorio e Marco. A trecento metri svetta il Chrysler Building, meraviglioso. Ho letto che questo grattacielo sta nel cuore dei newyorkesi, più dell’Empire e delle torri gemelle.
E’ finalmente buio. Usciamo e bighelloniamo tra le vie con il naso all’insù. Tutto è mastodontico! I colori pastello di alcuni grattacieli, illuminati a giorno, procurano sensazioni di compassata e annichilente meraviglia, mentre altri di vetro e acciaio incutono sgomento.
Mi sento piccolo piccolo. Ripenso a mia nonna, quando nel primissimo dopoguerra ricevette in consegna un appartamento di una nuovissima palazzina: come fu in possesso delle chiavi, prima ancora di traslocare, lo occupò immediatamente dormendo su un materasso. Non le sembrava vero di avere il bagno in casa con l’acqua corrente. La prima notte si alzò ogni due ore per tirare lo sciacquone, ed ogni volta piangeva.
Che dire del contrasto tra le guglie della cattedrale di S.Patrick ed i moderni, multicolori e multiformi grattacieli adiacenti?
E la gente? C’è di tutto. Bianchi e neri, rossi e gialli, spilungoni e nani, magri e grassi (la maggior parte), donne brutte e donne belle (di quest’ultime, invero, pochine!), musicisti, perdigiorno, venditori, uomini d’affari.
Mi colpisce un signore che indossa un’elegante giacca, camicia sicuramente fatta su misura, appropriata cravatta, scarpe italiane, ventiquattrore firmata legata al polso con una catenella e…….pantaloncini corti che mettono a nudo un paio di cosce pelose e calzettoni pacchiani!
Se uno conciato in questo modo transitasse dalla piazza del mio paese magari una domenica mattina dopo la messa delle undici, la gente si sganascerebbe dalle risate fino alle sette di sera e ne parlerebbe per almeno un altro paio di settimane. Sulla quinta strada, invece, nessuno lo degna di uno sguardo.
Uno qui, distratto e attratto da fauna variegata e “flora” esorbitante corre il rischio di pensare, e forse convincersi, di non possedere più neanche un’anima.
In un’assolata e calda giornata, dopo aver visitato la Statua della Libertà ci dirigiamo su Ellis Island, l’isola della “quarantena”, dove gli immigrati sostavano prima di ricevere il visto di entrata. Su un computer all’interno del museo si possono cercare i nominativi degli immigrati transitati da questo luogo: no, nessun tapascio bombatus, ma alcuni del gruppo trovano cognomi familiari.
A mezzogiorno pranziamo sui tavolini all’esterno, il sole è caldo e non c’è vento. Il pomeriggio è la volta delle torri gemelle e dell’Empire, e la sera, a cena, faccio il pieno di carboidrati.
Verso le sei, ma già da due ore sono sveglio, scendo a fare colazione per poter essere alle sette sulla trentottesima strada, dove un pullman ci scorterà al ponte di Verrazano. Qui la bolgia è infernale.
Pensate a come può essere vestito un podista o a quali calzature può indossare, a quanto può essere robusto o longilineo, giovane o decrepito, aitante o in catalessi, allegro o depresso, simpatico o indisponente, pensate pure alle cose più astruse; qui le trovate tutte! L’attesa è snervante ed il sole purtroppo non riscalda come ieri.
Alla fine si parte, comincia l’avventura. Il ponte che unisce Staten Island a Brooklyn non finisce mai, restiamo tutti in gruppo per tre o quattro chilometri e poi Orazio, Giuseppe ed io continuiamo ad un’andatura che stimo sui sei minuti al chilometro. Quanta gente sulle strade!
Orchestrine, saltimbanchi, tifo entusiasta…..vedo tutto con la coda dell’occhio perché sono concentratissimo sulla corsa e su quanto sto spendendo. Bevo in modo impressionante, ad ogni ristoro, acqua ed i bicchieri che ragazzini e signore offrono con il braccio teso urlando seccamente: “Ghereid, ghereid” che solo dopo un attimo di sbigottimento capisco trattarsi di Gatorade. Questi americani si mangiano tutto, anche le parole. Sembriamo degli orologi, almeno fino al quindicesimo chilometro quando Orazio comincia a sentire delle fitte al ginocchio e rallenta. Che facciamo?
“Andate, andate!” ci sprona Orazio, e così io e Giuseppe proseguiamo alla stessa andatura. Il mio compagno è proprio euforico: alza le braccia per salutare il pubblico, invita gli spettatori ad applaudire, saluta tutti, accetta un bacio da una signora di colore over cento chilogrammi con delle labbra spesse tre dita! I bambini continuano a tendere la mano: “Gimme five!”, così in certi punti corro con il braccio teso e batto il cinque a tutti. Che entusiasmo! Non sarà così nel quartiere ebreo: nonni, papà e nipoti in fila sui marciapiedi, impassibili senza applaudire e senza mostrare alcun entusiasmo, tutti vestiti di nero, con barba e cappello. Anche i più piccolini vestono di nero e portano il cappello; solo ti stupisci che non portino la barba anche loro. Superiamo un ponte e un altro ancora. Mi giro e non vedo più Giuseppe, l’ho perso. Siamo circa al venticinquesimo chilometro, il mio cronometro segna due ore e trenta minuti, entriamo a Manhattan e probabilmente ho una scarica di adrenalina perché decido di aumentare l’andatura, euforico.
Il tifo è assordante e pare di essere in uno stadio stracolmo che esulta al momento del gol, ma un gol perenne, fino al traguardo. Al ventinovesimo chilometro, improvvisamente, il primo orrendo segnale: il polpaccio sinistro diventa di marmo e sono costretto ad andare al passo per tre-quattrocento metri. Sembra che il mondo mi crolli addosso.
Cerco di non cedere allo sconforto e mentre vado al passo accolgo con piacere l’offerta di una banana ed un’arancia che i ragazzini offrono ai podisti, urlando assatanati. Quando si accetta qualcosa da loro, esultano con salti di gioia irrefrenabili.
Guardo l’orologio: tre ore e dieci minuti al trentesimo chilometro.
Riparto lentamente e proseguo in trance, continuando a bere acqua e gatorade tra uno scempio di bicchieri e mezze arance che insozzano i lunghi e larghi viali di Manhattan. Un ponte ed entriamo nel Bronx, un altro ancora e s’imbocca finalmente la quinta strada accolti da un vento gelido e sferzante.
Soffro come un cane a causa del gran freddo ed un mal di pancia che dopo le prime avvisaglie comincia a farsi sentire acuto e lancinante. Mancano sette o otto chilometri, un’eternità, dove troverò le forze per arrivare in Central Park ? Abebe, guarda giù.
Correndo vicino alle transenne stracolme di pubblico, non so come, mi ritrovo in mano una busta di carboidrati in gel al gusto di arancia che comincio a sorbire lentamente.
Di nuovo crampi, ma proseguo ugualmente tra podisti che mi superano elegantemente ed altri invece sfiniti, ai bordi della strada, che fanno stretching, oppure piegati in due esausti e stremati. Si entra finalmente in Central Park, mancano ormai quattro o cinque chilometri. Mai più, mi dico, mai più un’altra maratona, troppa sofferenza.
Il tifo è entusiasmante ed appassionato, sembra che il pubblico sia lì esclusivamente per sostenere te e nessun altro.
Sono costretto a fermarmi ancora un paio di volte, a causa dei crampi, vincendo la vergogna che si prova mostrando la propria debolezza di fronte a migliaia di persone. Salitelle e discesine, non so dove trovo le forze, ma corro ancora, mentre oltrepasso gli striscioni finali che evidentemente segnalano l’ultimo miglio, l’ultimo chilometro, il ventiseiesimo miglio e che ne so? non connetto più! Riconosco invece chiaramente, là in fondo, lo striscione dell’arrivo e quando mancano cinquanta metri la tensione e la stanchezza svaniscono d’incanto, mi sciolgo e comincio a piangere come mai mi sarei aspettato.
Un pianto quasi violento, liberatorio, che non riesco in alcun modo a trattenere, come mi è capitato solo altre quattro volte nella mia vita: in tre occasioni quando sono nati i miei figli e la quarta che mi devo tenere “in pectore”.
Quante similitudini tra un parto e la maratona! Mentre l’assistevo, Grazia provata dai dolori prometteva: “Basta figli!”, ma appena nati e presi in braccio si piangeva felici, dimentichi delle sofferenze.
Così, quando taglio il traguardo in quattro ore e quarantacinque minuti rivolgo lo sguardo al cielo, in cuor mio ringrazio Abebe e, incurante delle imprecazioni in corsa, penso alla prossima maratona in cui mi voglio trasformare in Tapascio Habilis (maratoneta sotto le quattro ore) visto che l’evoluzione da Bombatus a Robustus è ormai avvenuta.
Ricevo la medaglia, il mitico telo, il sacchetto con i viveri mentre siamo tutti incanalati tra le transenne coi visi sfatti e le membra doloranti. Dopo aver tagliato il traguardo tutti ti fanno i complimenti: “Congratulations, congratulations….”. Come se niente fosse, ancora stordito e inebetito dalla stanchezza rispondo: “De nada, de nada…”. Smetto immediatamente di piangere e comincio a ridere come un pazzo. “De nada”?, ma dove sono andato a prenderla questa? Non la conoscevo, ed è per questo che non smetto più di ridere, contrariamente a coloro che non ridono mai perché si raccontano barzellette che già conoscono .
I dolori di pancia adesso sono terribili. Mi avvicino ad un poliziotto. Devo essere ancora frastornato perché mi esce un : “Ohè, ghisa, scus….noios vaul au vent savoir ou se trouve the toilette, wc, cessos……you understand?”. Lo so che fa male guardare troppi film di Totò!
Dopo un’ora sono immerso nella vasca della mia stanza per un bagno rigeneratore e la sera da Smith & Vollensky, sulla quarantanovesima strada, divorerò una steak di mezzo metro quadro alta quattro dita, accompagnata da un ottimo Cabernet californiano e una montagna di patatine fritte, che resterà memorabile nella vita mia.
Per addormentarmi sono necessarie due aspirine, non mi sento più le gambe e nei due giorni successivi ad ogni scalino disceso corrisponderà un urlo di dolore.
Lunedì mattina il gruppo è indeciso sul da farsi. Alla fine saliremo su un barbie-bus scoperto e visiteremo la città prendendo una gelata storica mentre cantiamo a squarciagola “Quel mazzolin di fiori” e “La montanara uè”. Ad ogni spiegazione dell’accompagnatrice che termina con un “All right?”, per esser certa della nostra comprensione, tutti insieme urliamo in coro: “All right!”. “Oh my God, cosa farò domani senza questi italiani?” scuote la testa, sconsolata, la ragazza con il microfono in mano.
Nel pomeriggio mi “lustro” gli occhi visitando i mega store di Walt Disney, Nike, NBA e Virgin, il Trump Tower, il Rockfeller center, la quinta strada in lungo e in largo, la cattedrale di S.Patrizio, Broadway, l’Hotel Plaza…... Mangerò da McDonald un McChiken che a differenza del nostro impasto italiano è proprio un petto di pollo e un ottimo hot-dog da un dollaro acquistato in un baracchino sui marciapiedi della quinta. A poca distanza staziona un cantastorie con la chitarra. Colgo alcune parole: “I live…..Hudson River…..” una folgorazione! Quando narrerò la mia storia in inglese comincerò così: “ I live in bank of Churches River….”, “ Io vivo sulla sponda del fiume Chiese….” ( il mio fiume, il fiume Chiese, è un affluente dell’Oglio che va a morire nel Po).
Martedì mattina partiamo dall’aeroporto La Guardia su un A320 dell’United Airlines con destinazione Chicago, per prendere un volo Alitalia diretto a Milano.
Sorvoliamo il lago Michigan e quando l’aereo effettua una virata per atterrare, i raggi del sole provocano un’accecante riverbero sulle onde del lago e dal finestrino io…io…la banda…..la banda….vedo…. la LUCE! Dall’oblò scorgo Chicago come si vede esattamente nel film “The Blues Brothers” e nella testa mi parte una “Sweet home Chicago” come non ho mai ascoltato. Dopo un paio d’ore sediamo sul familiare setteseisette dell’Alitalia ove ci sorbiremo altri tre film con la solita manopola multilingue strapazzata. E’ sempre buio, non viene mai chiaro! L’unico diversivo si presenta quando sorvoliamo la Groenlandia ed il capitano dice: “Alla vostra sinistra potete ammirare l’aurora boreale…..”. Tutti si precipitano a sinistra e l’aereo sbanda paurosamente….. No, scherzavo….. Non può capitare nulla al Tapascio Bombatus, divenuto Robustus e che vuole trasformarsi in Habilis. Scendiamo cotti dall’aereo e saliamo sul pullman che ci riporta a casa.
Ecco finalmente i volti familiari: “E’ tornato il ‘mericano’…..- mi prendono in giro i miei - …e la prossima?”.
La prossima? Si vedrà!
Tratto dal volume: “Tapascio Bombatus e altre storie” – Ed. Liberedizioni –