È impreciso credere che una posizione politica conquistata con l’aiuto di una superiorità economica non abbia nulla a che fare con la guerra. Ciò che non è bellicoso è solo la terminologia.
Un imperialismo fondato su basi economiche cercherà di instaurare una situazione mondiale nella quale esso possa impiegare apertamente, nella misura che gli è necessaria, i suoi strumenti economici di potere, come restrizioni dei crediti, blocco delle materie prime, svalutazione della valuta straniera. Esso considererà come violenza il tentativo di un gruppo di esseri umani di sottrarsi all’effetto di questi metodi "pacifici".
Esso impiegherà mezzi di coercizione ancora più duri, ma sempre "economici" e quindi (secondo questa terminologia) "pacifici": sospensione dell’approvvigionamento dei mezzi di sussistenza alla popolazione civile e blocco della fame.
Infine, esso dispone ancora di strumenti tecnici di uccisione fisica violenta, di armi moderne tecnicamente perfette e rese estremamente utili, mediante un impiego di capitale e intelligenza, per essere realmente usate in caso di necessità.
Per l’impiego di questi strumenti si sta formando un nuovo vocabolario pacifista che non conosce più la guerra ma solo esecuzioni, sanzioni, spedizioni punitive, pacificazioni, difesa dei trattati, polizia internazionale, misure per la preservazione della pace.
In questo contesto, davvero per esempio la Germania non vede la possibilità reale della guerra e si limiterà a una contrapposizione di tipo economico? Se la contrapposizione si accentuerà ancora di più, siamo sicuri che la contrapposizione economica non si possa trasformare in una guerra, anche se essa verrà nominata con altri termini?
La condizione del nascondimento della possibilità reale della guerra attraverso gli strumenti dell’economia da parte dell’imperialismo economico è anche la confusione fra il concetto di governo e quello di politica.
Il tratto distintivo delle vie di fuga dalla politica è proprio il concetto di governo, secondo il quale gli uomini possono legalmente e politicamente vivere insieme solo quando qualcuno ha il diritto di comandare e gli altri sono costretti ad obbedire. In questo modo di ragionare la politica è vista come un mezzo per raggiungere un fine, legandosi così al concetto di dominio.
Per restituire alla sfera politica la sua autonomia rispetto al concetto di governo e di dominio ci si deve guardare dai vantaggi della stabilità, sicurezza e produttività, perché essi aprono la strada ad un’inevitabile perdita di libertà.
La società, la quale negli ultimi tempi si è sostituita alla politica e ha questi tre obiettivi (stabilità, sicurezza, produttività), è caratterizzata dall’uniformità e la sua espressione è il conformismo. L’omologazione è legata alla perdita dell’unicità dell’essere umano che rende possibile una maggiore governabilità e le migliori condizioni sociali sono proprio quelle nelle quali si può smarrire la propria singolarità e perdersi nella massificazione, la quale è indistinzione, in quanto in essa non c’è relazione.
Non c’è nulla di peggio, però, del conformismo di chi crede di essere anticonformista. Questi mediocri che magari hanno delle potenzialità incredibili mancano di coraggio nell’esprimerle e colmano questa mancanza ponendosi contro qualcosa o qualcuno, ovvero contro il presunto conformismo di altri.
Va chiarito però che la ragione economica non determina la conformazione del dominio e l’apparato produttivo è solo una componente della struttura di potere. I sistemi di governo occidentali e le teorie politiche sulle quali essi si fondano, conservano intatta la centralità della sovranità, della legge e dell’interdizione.
Certe interdizioni, però, non sono necessariamente repressive ma funzionano come moltiplicatori d’interesse e l’attuale sconfinata produzione di discorsi per esempio sul sesso non ci rende più liberi né più felici, perché il dominio utilizza il piacere-sapere come strumento di controllo sui corpi (pensiamo per esempio alla sessuologia).
La consapevolezza che il potere ci attraversa anche nella nostra ricerca del piacere potrebbe davvero rendercelo intollerabile. Non più solo la prigione, la caserma, la clinica o il manicomio; ora c’è la palestra che modellerà i corpi secondo i canoni della società disciplinare. A questo si associano la richiesta universale di felicità e l’infelicità largamente diffusa nella nostra società (due facce della stessa medaglia), che sono i segni più convincenti che viviamo in una società dominata dal lavoro, ma che non ha abbastanza lavoro per esserne appagata.
Fino a quando sarà diffusa la credenza che nella sfera politica si abbia a che fare con mezzi e fini, non si riuscirà a impedire a nessuno di usare tutti i mezzi per perseguire dei fini riconosciuti. La politica, contrariamente al governo e al dominio, è uno spazio di apparizione reciproca ed ha a che vedere con una pluralità di esseri unici che agiscono e parlano.
Anche se bisogna tener presente che non si può essere liberi se non si ha la consapevolezza di esser soggetti alla necessità (legata per esempio al consumo di cibo), perché la libertà è sempre guadagnata nei tentativi, mai completamente riusciti, di liberarsi dalla necessità. Il nuovo, cioè prendere un’iniziativa, che contraddistingue la politica, si verifica sempre contro la tendenza prevalente delle leggi statistiche e della loro probabilità, che a tutti gli effetti pratici, quotidiani, corrisponde alla certezza.
Proviamo a pensare a tutte le previsioni, le quali sono antipolitiche: esse, come dice la parola stessa, pretendono di vedere una cosa ancora prima che accada, ma ciò è evidentemente impossibile e quindi ogni previsione è profondamente contraddittoria.
L’azione invece è imprevedibile, inattesa e infinitamente improbabile. Senza un’azione che possa immettere nel gioco del mondo il cominciamento di cui ogni uomo è capace in virtù della sua nascita, non c’è nulla di nuovo sotto il sole, vi è continua ripetizione (un esempio di questa ripetizione può essere la moda).
Queste considerazioni sono state rese possibili dal guadagno di pensiero che ho ricevuto da Carl Schmitt, Hannah Arendt, Michel Foucault rapportati alla mia esperienza.