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07 Novembre 2011, 07.24

I racconti del lunedì

Albània - Terza Puntata

di Ezio Gamberini
«Mercoledì - Alle sei la temperatura è di due gradi. Ci laviamo (per quanto ci si possa lavare con tanto freddo) e c’incamminiamo sulla via principale...»
 
La strada è fangosa (qui l’asfalto è un sogno), a destra si trova la piazza con le lapidi degli eroi del regime, ormai divelte, dove scrofe grufolano in libertà, mentre a sinistra, sul greto del fiume che generosamente ha donato una fetta di terra, svettano due porte di un improvvisato campo di calcio. Don Gianfranco mi racconta un episodio davvero strano, avvenuto quest’estate al grest durante una partita dei ragazzi. Allo scadere del tempo, punizione dal limite dell’area (immaginaria); s’incarica del tiro il più bravo, che però è sprovvisto delle scarpette chiodate. Se le fa prestare da un compagno più fortunato, tira, segna, e gliele restituisce.
 
Subito dopo la piazza in una baracchina si trova il servizio di telefono pubblico.
“Ma si, telefoniamo a casa, alle sette di mattina dovremmo trovare qualcuno”. Bussiamo allo sportello ed una signora ci apre, prende il cronometro e si fa dire il numero da chiamare.
La penna non scrive, gli presto la mia e gliela lascio. Per primo chiama Nene. “Ciao, Cristina, sono Ezio!”. “Ezio chi?” risponde Cristina.
Poi telefona Piere e dopo un po’ Sandra gli dice: “Ah, tornate? Avevo già fatto cambiare tutte le serrature di casa…..”.
 
“Ah, ah, ah, ma che mogli avete?….”, rido di gusto.
Faccio comporre il numero alla signora, parte il cronometro e Grazia risponde: “Pronto…”. “Ciao…” dico suadente. “Accidenti, sei tu! – esclama stupita – devo bloccare le pratiche per la dichiarazione di morte presunta…..”. “Ma…. come…. - balbetto – sono solo tre giorni che manco da casa……”. “Vabbè, ma con tutto quello che ho da fare volevo portarmi avanti, no?”.
 
Due serie di casupole, a destra e a sinistra, rappresentano il centro di Klos.
A sinistra c’è il bar con il biliardo dove i ragazzi che “bruciano”, invece di andare a scuola, trascorrono le loro mattinate giocandosi qualche lek ad ogni partita. Noi invece entriamo nel bar di fronte, pieno zeppo, un poco più elegante. Nel varcare la soglia ci sentiamo “squadrati” da cima a fondo, poi i due sacerdoti sono riconosciuti. Ci fanno accomodare in una saletta laterale e poco dopo siamo raggiunti dal sindaco. Sarà lui ad offrirci il cappuccino. Racconta, orgoglioso, di suo fratello che studia a Padova.
 
Passiamo dalle suore e poi partiamo per la montagna. Dobbiamo raggiungere una signora alla quale Don Gianfranco quest’estate ha promesso un aiuto per ristrutturare alla meglio la sua casa che sta crollando.
Visitiamo un parente di un ragazzo conosciuto al grest per farci accompagnare nella mezz’ora di strada a piedi che dovremo percorrere per raggiungerla. Prima però dobbiamo entrare nella sua casa. In questi posti l’accoglienza e l’ospite sono sacri e chiunque ti offre quel poco, o tanto, che ha.
Una bimba arriva di corsa e prima di oltrepassare la porta si toglie al volo le pantofole lasciandole accanto alle altre svariate paia di scarpe, ciabatte e gambali che si trovano sulla soglia di casa.
La stanzetta è piccola, con due divanetti ai lati. Sull’altro lato c’è una stufa che diffonde un calore delizioso e in un angolo è acceso il televisore sintonizzato su RAI2 .
Stanno trasmettendo cartoni animati e due bimbetti di quattro-cinque anni osservano avidamente. Una signora con scialle e foulard nero fa un cenno alla ragazza più grande, di quindici o sedici anni, la quale esce e rientra con un sacchetto di noci e con una piccola roncola le rompe e le offre.
Il marito intanto è andato a prendere una bottiglia di rakì, il distillato tipico albanese, fatto con prugne o con frutti che dalle nostre parti sono chiamati “cornal”, delle bacche insomma.
 
Ci ritroviamo prima delle otto e mezza di mattina a bere superalcolici, a mangiar noci e a guardare cartoni animati, in una baita sperduta sui monti della Mirdita, in Albania!
Il capofamiglia infine, prima che siamo ubriachi, indossa i gambali e ci accompagna, non prima di averci donato una bottiglia da litro e mezzo di rakì. Dopo una ventina di minuti raggiungiamo l’abitazione di questa nonnina e la scena che si presenta è straziante. La casa, costruita a secco con pietre di fortuna, presenta una fessura di una decina di centimetri lungo tutta una parete. Dio solo sa come non sia ancora crollata.
Entriamo. Le pareti che dividono il corridoietto dalle due stanzette sono costruite con assicelle sostenute da pigne (sic) e cemento magro. Non ho mai visto una cosa del genere.
In una stanzetta c’è un televisore acceso che funge in pratica da radio, perché lo schermo è perennemente grigio, mentre nell’altra ci sono i letti.
 
“Vado a dormire la sera, ma non so se mi risveglierò la mattina”, rivela sconsolata la vecchietta che dispera di poter scampare alle nevicate dell’inverno che sopraggiunge.
Manderei quassù a fare qualche summit o conferenza che dico io, e passerebbero le fregole a tanti…….
Ritorniamo in paese e visitiamo l’asilo. Suor Rosella fa cantare ai suoi bambini una canzoncina e noi restiamo lì come mammalucchi, col cuore gonfio, e la voglia di abbracciarli tutti. Accarezzo la testolina di quelli più vicini e do la mano ad altri. Alcuni hanno gli occhi infossati e sono visibilmente denutriti.
Nella stanza accanto suor Franca ci presenta le sue timidissime e rispettosissime ragazze concentrate nel disegno e taglio di modelli.
 
E’ l’ora della ricreazione, invece, per la scuola che raggiungiamo mentre i ragazzi sono nel cortile a giocare e tutti si avvicinano e ci salutano.
Fa un freddo cane, ma i ragazzi indossano maglioncini e giacchette leggere. Ad un tratto sibila un fischio: tutti in riga, ordinatamente classe per classe, dalla prima elementare alla quarta superiore, poi ad una ad una procedono al rientro, sotto l’occhio vigile degli insegnanti.
In Albania esistono tre cicli scolastici di quattro anni ognuno, prima di accedere all’università: i primi due, quattro ‘elementari’ e quattro ‘medie’, sono obbligatori, mentre le quattro classi superiori sono facoltative. Questo istituto conta circa quattrocento iscritti. La domanda che ci si pone, spontanea, constatando che il paese è formato da quattro case, è la seguente: “Ma da dove vengono gli studenti?”.
Scendono tutti dai monti, perché proseguendo sulla strada “principale”, ogni poco si incontrano gruppi di due o tre case, ma all’interno, quasi invisibili e sperdute, si trovano altri innumerevoli gruppetti d’abitazioni, tutte densamente abitate. Non bisogna dimenticare che l’Albania è il paese con la più alta natalità in Europa.
 
I ragazzi, ma anche i bambini più piccoli, compresi gli ‘scriccioli’ dell’asilo, si fanno anche due ore a piedi per raggiungere l’edificio scolastico, e poi si mettono in fila alla fontana per lavarsi via il mezzo quintale di fango che ha imbrattato le loro scarpe. Gli ombrelli, poi, sono oggetti quasi sconosciuti.
Il direttore ci presenta i suoi insegnanti, riuniti in una classe per accoglierci. Faccio fatica a non scoppiare a ridere perché mi sembra di essere un ispettore ministeriale nel pieno delle sue funzioni. Visitiamo alcune classi: gli insegnanti non hanno una cattedra centrale, ma un banchetto, uguale a quello dei ragazzi, collocato sul lato opposto alla porta d’entrata. In pratica quando si entra in una classe l’insegnante è di fronte ed i ragazzi tutti alla sinistra; la totalità delle classi è disposta in questo modo. Il riscaldamento è inesistente ed alcune finestre hanno i vetri rotti.
 
Tutti i ragazzi, in ogni classe, sui banchi a tre posti hanno appoggiati soltanto un libro ed un quaderno. Credo non abbiano altro. In quarta superiore chiedo quanti proseguiranno negli studi: su undici, sei vogliono continuare e dovranno andare all’università di Tirana. Nell’uscire da scuola incontriamo il direttore di una scuola vicina, che ospita circa trecento ragazzi. Conosce Don Gianfranco, lo saluta volentieri, e ci racconta compiaciuto dei suoi due figli che studiano a Lione.
I figli all’estero, per un albanese, possono significare sia il “riscatto morale” o la speranza, come in questo caso, oppure il sostentamento, come accade per altri sette od ottocentomila lavoratori che dall’estero inviano parte dei loro stipendi ai familiari.
Con il dieci percento che percepisce un dipendente in un qualsiasi paese occidentale, in Albania vive un’intera famiglia. Qui gli stipendi medi molto difficilmente raggiungono i cento euro al mese. Questo paese che ufficialmente conta tre milioni e centomila abitanti si ritrova in sostanza con poco più di due milioni di residenti stabili.
 
Visitiamo l’ospedale, o meglio, il pronto soccorso, privo addirittura dell’acqua corrente. Fosse qui Mario, che fa il chirurgo, si metterebbe a piangere. Fuori dalla piccola costruzione sosta un furgone Ford antelucano, che funge da ambulanza.
L’unico medico che si occupa della struttura ci fa entrare, mostrando l’ambulatorio e la sala parto. Poi prende una chiave e comincia ad aprire i lucchetti di un’inferriata fissata su una porta.
Entriamo nella stanzetta: “Qui facciamo le ecografie!” e mostra orgoglioso un macchinario donato da Brescia.
 
Poco distante, sulla riva del fiume, alimentato da una tubazione proveniente da un piccolo torrente laterale, si trova un mulino.
Il “muliner” ci mostra come modificare la velocità della rotazione della pietra e le diverse qualità di farina ottenute con i chicchi che uno ad uno passano attraverso il buco centrale per essere macinati. Lui non vende farina, ma lavora soltanto “conto terzi”: la gente gli porta il grano e lui prende un tanto all’ora.
Passiamo davanti al bar con il biliardo, Suor Rosella e Don Gianfranco sentono delle voci conosciute ed entrano: ecco qui Erion che invece di andare a scuola ha ‘bruciato’ insieme ad altri amici. Baci ed abbracci, e poi la stilettata :“Ti aspetto all’una, per servirmi la messa”. “Si, certo!”, gli risponde il vispo ragazzino.
 
Le suore ed i preti hanno fissato appuntamento alle 13, nella chiesa grande, in riva al fiume, a tutti quelli che vogliono assistere alla celebrazione della messa.
I due sacerdoti vanno a cambiarsi e noi ci sediamo sui primi banchi a destra. Assisto con stupore ad un fatto straordinario: tutti i maschi sono disposti sui banchi a destra e le femmine a sinistra, come quando ero bambino!
Alessandro sale sull’altare e si colloca vicino al leggio: dovrà tradurre le parole del celebrante. I due preti quest’estate hanno masticato un poco d’albanese, ma naturalmente le difficoltà sono enormi.
Con suor Franca all’organo, le ragazze intonano un canto allegro. Ecco i due ministri di Dio che escono dalla sacrestia, baciano l’altare e cominciano a celebrare.
 
“Nel nome del Padre…..” mi aspetterei, ed invece Don Gianfranco pronuncia la formula iniziale in lingua albanese.
È come se ricevessi una frustata! Mi viene un groppo alla gola che mi costringerà a restare col capo chino e le corde vocali bloccate per cinque minuti. Soltanto ora sembro rendermi conto di essere in Albania e che Don Gianfranco non sarà più tra noi, ma qui, con loro.
Passano altri cinque minuti ed arriva Erion; con noncuranza entra in sacrestia ed indossa la veste, poi esce e si mette in parte ai celebranti a fare il chierichetto, insieme con gli altri.
Terminata la messa, i ragazzi vogliono essere fotografati davanti alla chiesa e così tutti si mettono in posa davanti all’obiettivo, tranne le ragazze che sgusciano via come anguille. C’è anche un ometto strano e simpatico in giacchetta e con un bel fiocchetto al collo, che vuole essere immortalato da solo. I ragazzi gli fanno festa: si tratta dell’ex-veterinario, ormai macchietta del villaggio, che ha le rotelle del cervello grippate. Si mette in posa e alza due dita a “V” : vittoria! … “e ricordatevi di me”… ci sussurra quando lo salutiamo, dopo avergli regalato un paio di pacchetti di Durres Special, le famose sigarette del regime. Si fa tardi. Pranziamo dalle suore, ed è ancora una festa, con spaghetti aglio, olio e peperoncino, pollo arrosto ed un buon vino rosso pugliese, mentre una processione di ragazzi viene e salutare i due sacerdoti e nessuno torna a casa a mani vuote: un pacchettino di biscotti, qualche caramella…..
 
Bisogna ripartire, anche se dispiaciuti, e i saluti lasciano il segno.
Poco prima delle diciotto arriviamo a Rreshen e conosciamo altri due preti: Don Giovanni è un giovane albanese di Tirana che a vent’anni faceva il cameriere sul lago di Garda, in seguito ha studiato in seminario in Italia, dove è stato ordinato sacerdote, scegliendo poi di ritornare nella sua terra per svolgere il ministero; Padre Luigi, giovane anche lui, è un simpaticissimo pugliese dalla faccia gioviale e serena.
Si occupa dei venti seminaristi ospiti su un piano del palazzo, dai quattordici ai diciotto anni, che la mattina si recano alla scuola pubblica della città, mentre il pomeriggio, assistiti da professori assunti da Padre Cristoforo, ripassano ed approfondiscono ogni materia. Parlano tutti italiano, perché quando proseguiranno negli studi di teologia, a Scutari, dovranno fare i conti con testi esclusivamente in italiano.
Incontriamo anche Frida, una signora friulana appena giunta dal Brasile dopo sedici anni di volontariato laico. Andrà ad abitare in una città della Mirdita, i cui palazzoni furono costruiti abbarbicati alle montagne, quando le miniere di rame rendevano bene e la manodopera era necessaria come il pane. Anche in Romania ho visto città come questa, costruite in montagna, attorno alle miniere di carbone: si percorrono chilometri e chilometri in salita, tra boschi e scenari incontaminati, poi all'improvviso si presenta un agglomerato di palazzoni che in certi casi raggiungono e superano i cinquantamila abitanti!
 
Dopo cena, minestra e pizza, gironzoliamo per la città. Alessandro apre la porta di un negozietto e chiede se ci sono cartoline: la signora dietro il banco annuisce con il capo e io mi accingo ad entrare quando il giovane albanese mi dice: “Guarda che ha detto di no!”. Provo sulla mia pelle quanto avevo sentito dire su questo curioso aspetto del popolo albanese, che credevo una “bufala”. Il nostro “annuire” per un albanese significa “no”, mentre un leggero ciondolare del capo, in senso orizzontale, magari accompagnato da un “po, po”, esprime un assenso: “si”, in sostanza. Forse i canoni che stanno alla base della costruzione linguistica di questi popoli sono a noi incomprensibili. Come se Alessandro avesse chiesto alla negoziante: “E’ vero che non ci sono cartoline?” e lei avesse risposto: “Si, certo, non ci sono”.
In centro, sui muri di alcune case, ho notato delle scritte : “W Lazio – Roma m…..”.
Domani nel riferire la scoperta all’anziano prete, ondeggiando l’indice con accondiscendenza gli dirò: “Padre Lino, padre Lino……” ed ometterò “…..qui c’è sotto il tuo zampino !”.
Scopriamo con piacere che una birra costa poco più di trenta centesimi. “Crì ?” chiede il barista, cioè “Alla spina?”. Sarà tutto un “crì, crì”, canteremo come grilli.
 
L’ultimo frinire avviene nel bar più elegante di Rreshen, costituito da due sale stracolme di giovani seduti ai tavoli mentre guardano Inter e Milan con il fumo che si può tagliare con un coltello. Per l’ennesima volta vien tolta la corrente e la città resta completamente al buio.
Può tornare anche dopo ore, ma stavolta siamo fortunati perché entro cinque minuti tutto si illumina nuovamente. Nel percorrere una via un po’ buia, all’improvviso spicco un salto: dietro ad un angolo scorgo tre cani enormi; me la sto dando a gambe, quando ci accorgiamo di trovarci di fronte a tre asinelli che brucano tranquilli, liberi e pacifici. Sono proprio piccoli, così come mucche, pecore e capre che abbiamo osservato al pascolo nei nostri spostamenti attraverso l’Albania, accudite da donne ricoperte di scialle e foulard intente a sferruzzare.
 
Questa sera dormiremo nell’albergo indicatoci da Padre Cristoforo, proprio di fronte alla cattedrale.
È nuovo, il primo piano dispone di cinque camere a tre letti, eleganti e graziose, ed un servizio con doccia. L’unico neo: manca il riscaldamento. Alessandro dormirà con Piere ed io con Nene.
Ezio vuol fare la doccia per ultimo e quando uscirà dal bagno, dopo aver terminato, esclamerà incredulo: “Quattro volte è andata via la corrente mentre ero sotto la doccia, quattro volte!”. Mica possiamo svelargli che il fenomeno è stato naturale in due casi, mentre Pierenzo prima, ed io poco dopo, gli abbiamo spento la luce per qualche minuto……
 
Tratto dal volume “Tapascio Bombatus e altre storie” - Ed. Liberedizioni
 
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