Umbra era scomparsa.
Mi alzai a fatica, mi rasai male, mi vestii in fretta e raggiunsi la hall.
L’orologio a parete segnava le quattro e cinquanta di mattina.
Qui già sostavano dei colleghi. Bisbigliavano, parlottavano a voce bassa come se volessero evitare di svelare un segreto.
Tutti manifestavano una grande agitazione.
Dopo qualche minuto arrivò il Capo e ci prospettò alcune ipotesi sulla scomparsa di Umbra. Ci invitò a formularne altre.
Alla fine ci disse che bisognava assolutamente trovarla perché la cosa era di un’importanza vitale.
A ciascuno di noi impartì disposizioni precise e dettagliate.
Quando ci congedò decisi di ispezionare subito il borgo di Bettona dove si trovava il nostro albergo: un villaggio medioevale posto su una collinetta poco distante da Assisi, pieno di viuzze ripide che s’inerpicavano per la collina per raggiungere una piazza posta proprio sulla cima.
Era tutto piccolo e stretto in questo paese, fuorché le campane che emulavano quelle di Piazza S. Pietro in Roma.
A quell’ora le stradine erano deserte. I negozi chiusi.
Tutto sembrava fermo, immobile. Solamente un bar mostrava l‘insegna luminosa, intermittente in un'atmosfera livida, fredda, irreale.
Da est un lieve chiarore filtrava l'aria incerta del mattino presto.
Sulla “porta del morto” di una casa accanto al bar una scritta grande sotto un fiocco rosa diceva: “Sono Sofia. Da oggi anch'io faccio parte di questo mondo”.
Chissà perché quella scritta fosse così grande. Forse per farla leggere a tutti, anche a quelli che, come me, ci vedono poco.
Umbra non si trovava! Possibile?
Alla Corte Bettona alloggiava un gruppo che, dalla parlata, doveva essere francese, ma c’erano anche italiani.
A giorno fatto chiesi al Capogruppo di potermi associare a loro per agevolare le indagini sulla ricerca di Umbra.
Dopo colazione salii sul pullman con loro: si andava ad Assisi.
Dal finestrino del pullman notai una bimba dagli occhi grandi e dai capelli neri che mi faceva cenno con la mano: ''Ciao professore. Sono Sofia, non mi riconosci?''
Sofia? Quella della “porta del morto”? Possibile che sia passato tanto tempo?
Tra i francesi Umbra non c’era, ma forse poteva trovarsi ad Assisi o a Gubbio o a Perugia.
Assisi sorge su un colle posto al limite estremo del complesso preappenninico del Monte Subasio, alla confluenza dello spartiacque dei fiumi Topino e Chiascio.
La città deve la sua fama alla figura di S. Francesco (morto nel 1226). Fu coinvolta nella lotta fra guelfi e ghibellini e anche in quella tra francescani e curia pontificia, insediata ad Avignone.
Dalla Chiesa di S. Chiara, dalla semplice facciata a capanna e dai robusti contrafforti rampanti, dove si trova il crocefisso che parlò a Francesco, scendemmo lungo Corso Mazzini fino alla piazza del Comune, dove si trovano il Palazzo del Capitano, il Palazzo dei Priori e il Tempio di Minerva: tutti in pietra bianca e rosa del monte Subasio.
Di Umbra nessuna traccia.
Non per la via S. Francesco (l’antica ”via Superba”), ma per una strada laterale raggiungemmo la basilica, iniziata nel 1228 e consacrata nel 1253.
Faceva caldo. Un sole sfavillante indirizzava i suoi possenti raggi proprio contro di noi.
Possibile che sia già estate?
Nella piazza, stavo manovrando con l’apparecchio auricolare che mi avevano assegnato, quando una ragazza mora con gli occhi grandi, mi salutò: ''Ciao professore, sono Sofia, non mi riconosci?''. Sofia? Quale Sofia, mi domandai, quella della “porta del morto”? Possibile che sia passato già tanto tempo?
La basilica consta di due chiese sovrapposte e presenta una ricchissima decorazione di affreschi dei maggiori artisti del tempo: da Cimabue a Giotto, a Simone Martini, a Pietro Lorenzetti.
Quel giorno non andai neppure a pranzo. Mangiai solo un panino, nel bar di fronte, oltre la strada.
La cercai dappertutto questa Umbra; perfino nel ciclo degli affreschi di Giotto, che nella basilica superiore illustrano mirabilmente la vita di S. Francesco.
Nel pullman diretto a Gubbio un messaggio sul telefonino mi avvertiva che un mio zio materno, l'unico parente che ancora mi rimaneva, si era sentito male e l'avevano portato in ospedale. Per il resto nulla: di Umbra neppure l'ombra.
Mi chiedevo dove potesse essersi ficcata. Com’era possibile che nessuno l'avesse vista.
Mi misi a elaborare possibili scenari, ipotesi più o meno verosimili, percorsi plausibili o poco probabili o addirittura impossibili.
Immerso in queste profonde elucubrazioni, mi accorsi a malapena che eravamo già arrivati a Gubbio.
Qualcuno dalla piazza mi faceva segno con la mano. Una donna bruna, con grandi occhi e con due bimbi mi gridò: ''Ciao professore, non mi riconosci? Sono Sofia''.
In una posizione dominante ai piedi del monte Ingino, tutto verde, ma chiazzato ogni tanto di macchie gialle di fiori di ginestra, sorge Gubbio: una città bianca perché tutta di pietra bianca che ha conservato straordinariamente intatto il suo fascino medioevale.
Ascensori conducono alla Piazza della Signoria con gli splendidi palazzi dei Consoli e del Podestà. Balestrieri si esercitavano al tiro al suono di fragorosi tamburi. In alto la Cattedrale di S. Ubaldo, orfana di piazza perché occupata nel quindicesimo secolo dal palazzo ducale dei Montefeltro.
Alla Taverna del Lupo abbiamo degustato sapori locali e musiche medioevali suonate e cantate da un gruppo di giovani in costume antico con strumenti dell’epoca.
A Perugia ho cercato Umbra nei meandri della Rocca Paolina, sotterranei bui dai quali si accede, anche attraverso scale mobili, al centro storico della città situato nella parte alta.
In fondo al Corso Vannucci ci siamo imbattuti nella Fontana Maggiore (il più antico monumento della città etrusca), nell’imponente Palazzo dei Priori, nella Cattedrale, custode di una splendida Deposizione del Barocci e dell’anello nuziale di Maria. Un po’ più defilata la bellissima chiesa di S. Francesco al Prato.
Delle tante torri che un tempo abbellivano la città l’unica rimasta è la Torre degli Sciri.
Queste città umbre sono tutte un saliscendi e hanno messo a dura prova tutti noi che, se è vero che nati non fummo a viver come bruti, neppure siamo nati per soccombere per le impervie rue.
Tornammo a Bettona. Ero un po’ sconsolato: Umbra non l’avevo trovata.
Il Capogruppo aveva notato il mio stato di scoraggiamento e di delusione e perciò m’invitò a partecipare (eccezionalmente mi disse) alla loro serata di gala.
Dopo il pranzo si misero a ballare e a saltare.
Uscii da quella confusione. Sedetti, solo, su una sedia del terrazzo.
Ombre silvestri avvolgevano il borgo. Miriadi di luci provenivano dalla piana del Chiascio e del Topino e dalle falde dei monti circostanti e si unirono a quelle del cielo. Tremolavano tutte all’unisono, come se cercassero di dirmi qualcosa.
Mi adagiai un momento sullo schienale della sedia. Dal locale proveniva adesso una musica di pianoforte. Era un pezzo di Chopin, ma non ricordavo quale.
Ero stanco e depresso e forse dovetti appisolarmi.
Ora una grande ombra incombeva sul posto. Era Umbra? Era lei Umbra? Mi ricordò il buio della mia cameretta quando mia madre spegneva la luce. Nell’oscurità mi apparivano le figure più strane, paurose.
Allora mia mamma mi diceva: “Non aver paura. Sono qui.” E mi prendeva nel letto con sé.
Anche qui, nel buio del terrazzo, vorticavano figure antiche. Mi apparve il mio amico d’infanzia più caro che morì sotto un pullman. Mi apparve una ragazza che mi voleva bene e che piangeva.
E’ una vita che anch’io mi porto nel cuore un pianto antico.
Come ho potuto, come ho potuto, per scoprire il mondo, lasciare gli affetti più cari! Come ho potuto!
Nel buio del terrazzo mi apparve anche mia madre, che se n’era andata qualche tempo prima.
“Non aver paura. Sono qui.” Mi disse.
Poi mi prese per mano per accompagnarmi attraverso un campo di asfodeli.
“Sei tu Umbra?” le chiesi. Lei sorrise, ma non mi rispose.
Guardava avanti, verso un punto lontano, oltre quel grande campo.
Allora anch’io diressi lo sguardo verso quel luogo lontano. Intravvidi così, nella lontananza, attraverso quell’aria cangiante che sovrastava l’ondeggiare degli asfodeli al vento, il riverbero riflesso delle mura bianche della città del silenzio.
Ora le note della musica di Chopin si fecero lente, ma più dolci e struggenti.
Mi ricordai. Era la “Chanson de l’adieu”.
LoStraniero