Gli storici hanno una visione spesso monocromatica dei fatti e disegnano, nei loro testi, descrizioni riduttive, a volte addirittura fuorvianti, spesso più per un sentimento di appartenenza a correnti di pensiero e di studio che per reale e fondata capacità interpretativa.
Per una strana ragione di carattere tipicamente accademico, il Seicento fu interpretato come periodo di decadenza e crisi perché ad esso fu applicato lo schema del “ciclo economico”.
Questo schema vedeva il Rinascimento come periodo di espansione e il Seicento come periodo di depressione economica. E sull’onda di questa impostazione molti cercarono le prove che la dimostrassero piuttosto che raccogliere i fatti cercando una interpretazione libera, non influenzata, appunto, da uno schema preordinato.
Molto abilmente Enrico Stumpo, nel suo capitolo intitolato “La crisi del Seicento in Italia” inserito nell’opera “Il Seicento e il Re sole” (2012), cerca di confutare questa impostazione cattedratica e ci racconta di come, nel secolo del barocco, tutta l’Europa avesse subito una profonda trasformazione, tradottasi in grande sviluppo e ricchezza per alcuni paesi, Gran Bretagna e Olanda, in uno sviluppo più lento per altri paesi come Francia, Danimarca, Svezia, Sassonia, Slesia, Russia e Baviera, e in un netto regresso per Spagna, Portogallo e Italia. Se ci fu crisi, no fu per tutti insomma.
Le ragioni di tale trasformazione furono dovute principalmente all’apertura di nuovi mercati e allo sfruttamento mercantile delle nuove terre nelle Americhe.
In quegli anni arrivarono in Europa beni così a basso prezzo che misero in crisi tutte quelle aree produttive che non poterono competere. Constatiamo che la storia drammaticamente si ripete.
Tra le posizioni interpretative più importanti degli storici italiani che hanno studiato il Seicento, Stumpo ci suggerisce quelle, quasi antitetiche, di Carlo M. Cipolla e di Ruggiero Romano.
Il Cipolla partendo dall’analisi dell’andamento della produzione di pezze di lana in Italia in quel periodo, e notando una sua drastica riduzione in tutte le maggiori manifatture italiane situate in città come Firenze, Venezia, Milano e Genova, conclude affermando che in quel periodo i prodotti italiani erano fuori mercato.
Cipolla sostiene che la differenza di prezzi tra le pezze di lana italiane e quelle prodotte nei paesi d’oltreoceano dipendeva dal fatto che le corporazioni cittadine nostrane avevano continuato ad usare modelli di produzione vecchi e organizzazioni obsolete in un paese ad alto peso fiscale e con un costo del lavoro diventato insostenibile.
E questo nonostante i prodotti italiani fossero molto apprezzati nei mercati europei per la loro qualità elevata.
La ricchezza italiana, fino alla fine del XVI secolo era legata, secondo Cipolla, massimamente alle esportazioni dell’industria tessile, e questa ricchezza finì quando le nazioni italiane non riuscirono più a esportare.
Secondo il Romano, invece, la questione non si giocò solo sul differenziale di prezzo dei tessili, nemmeno sul fatto che i prodotti di lusso italiani non fossero più accettati come prima nei mercati stranieri.
Lo dimostra il fatto che certe produzioni, come gli specchi veneziani, continuarono ad essere molto richiesti all’estero per tutto il secolo.
Il Romano è convinto che la ragione principale del declino del bel paese fosse legata alla incapacità militare degli stati italiani di difendere e rinforzare i propri commerci, imponendo con la forza di una flotta militare, come quella in dotazione alla marina inglese, il dominio sulle fonti di ricchezza commerciale mondiale.
L’impostazione politica di sviluppo del mercantilismo in Gran Bretagna, Francia e Olanda supportata dall’intera struttura istituzionale nazionale furono, per Romano, lo strumento vero dello sviluppo economico dei paesi del nord Europa rispetto all’Italia: la nostra debolezza politico-militare generò debolezza economica e quindi crisi.
Testimonianze di questa impostazione furono, per esempio, i colpi di cannone che subì Genova nel 1683 da parte di una nave francese per convincere la città a piegarsi al dominio mercantile transalpino contro la Spagna, oppure lo smantellamento della piccola industria tessile irlandese, troppo fastidiosa per i commerci della vicina Inghilterra e che generò una carestia e un’emigrazione micidiali per la l’isola verde nel secolo successivo. Di casi simili ce ne sono a centinaia e tutti concordano con la tesi della connessione tra sviluppo economico e potenza militare.
I due studiosi, nonostante queste divergenze interpretative, concordano su un punto: nel Seicento in Italia ci fu “immobilismo concettuale, mentalità superata, occasioni mancate, inettitudine imprenditoriale unita a fiacchezza morale”.
Ci piacerebbe informarli che oggi, di fronte alla crisi che ci sta travolgendo, le cose non sono cambiate.
Cosa avvenne dell’economia italiana in quel periodo? Le città che nel secolo precedente si erano enormemente arricchite attraverso i commerci con terre lontane, come Genova e Venezia, furono costrette a spostare il loro baricentro economico: la prima diede maggior impulso alla già feconda attività finanziaria (banche e assicurazioni), la seconda puntò sullo sviluppo agricolo dei territori immediatamente retrostanti.
Genova non aveva territori coltivabili alle sue spalle quindi preferì far fruttare a interesse i propri denari accumulati in un secolo di scambi commerciali.
I patrizi veneziani, invece, incominciarono ad acquistare terreni e a edificare bellissime ville nell’immediato entroterra veneto, curando la produzione agricola. Entrambe lasciarono ad altre potenze il dominio dei mari e con esso, purtroppo, tutto il valore aggiunto dei commerci che le avevano fatte grandi fino a quel momento.
In Italia, la debolezza militare e politica non impedì quindi la reazione alla crisi.
Ogni stato, come abbiamo appena detto, reagì diversamente: il Piemonte divenne uno dei più importanti produttori agricoli del nord Italia, sviluppando una burocrazia ordinata ed efficiente gestita da tecnici competenti e lungimiranti.
La Lombardia e Milano, penalizzate dalla lontananza dal mare, svilupparono diverse industrie e commerci come quello dei metalli e della seta, mantenendo in pratica una struttura economica mista.
Il Veneto potenziò la produzione agricola.
In Toscana la crisi non fu così acuta e tutto sommato ci fu una tenuta delle attività commerciali e agricole grazie allo sbocco sul mare e al funzionamento del porto mediceo di Livorno.
In tutta questa dinamica di assestamento, emerse un fenomeno interessante che portò ad un nuovo equilibrio: le città in crisi persero il predominio territoriale a favore del “contado”, l’odierna provincia, nuovo motore produttivo del centro nord.
Città minori come Verona, Pavia Brescia fecero capolino nel panorama economico.
A Napoli, invece, dolenti note: alla decadenza economica si aggiunse una grave crisi politica che determinò il ritorno alla feudalità.
Vinsero i baroni, in difesa dei loro privilegi, contro le spinte autonomistiche capeggiate dalle Università cittadine, dove si formavano le nuove forze sociali e politiche del regno.
La campagna dominata dai baroni feudatari bloccò lo sviluppo, desiderato e animato dalle classi più dinamiche cittadine.
Il sud Italia, che nel Cinquecento era stato il serbatoio di materie prime agricole per le città del nord impegnate in attività manifatturiere, sprofondò nel Seicento in una crisi nera per effetto del rifiorire della produzione agricola delle provincie del nord, una volta generose clienti, successivamente riassestatesi verso l’agricoltura sull’onda dei cambiamenti economici internazionali.
Per concludere potremmo arrivare ad una sintesi del discorso ricavando da questa breve storia alcuni spunti che ci toccano da vicino: la crisi economica italiana del Seicento non dipese solo dal costo del lavoro elevato e da un differenziale di prezzi insostenibile, ma anche dalla mancata capacità di controllo dei fattori critici fondamentali per la creazione di ricchezza di una nazione.
Inoltre il peso fiscale e l’organizzazione estremamente antiquata del lavoro, cioè la sua bassa produttività, diedero il colpo di grazia alla struttura manifatturiera italiana di quel secolo.
Se rapportassimo quelle condizioni a quelle dell’Italia attuale, ci accorgeremmo che la situazione non è molto cambiata: siamo ancora in posizione subalterna a paesi più avanzati che dominano i fattori critici della produzione di ricchezza.
Non controlliamo per nulla le fonti energetiche come il petrolio o l’elettricità, che siamo costretti a pagare a caro prezzo importandola; non investiamo in ricerca e sviluppo in modo e quantità sufficiente, quindi non possiamo proporre e vendere innovazione nei mercati mondiali, accontentandoci delle briciole riservate ai paesi trasformatori che producono beni a basso margine e quindi a basso guadagno.
Non abbiamo l’industria strategica importante, perché, per le ragioni sopradette e per una politica industriale miope e ideologicamente impostata, non siamo stati in grado di garantire la sua sopravvivenza e il suo sviluppo.
Quando l’abbiamo fatta sopravvivere, ciò si è realizzato a spese delle comunità ospitanti che hanno sopportato costi ambientali, sanitari e sociali enormi, vedi il caso ILVA.
Gli stati e le città italiane del Seicento si buttarono sull’agricoltura e lasciarono la ricchezza mercantile in mano a Francia, Inghilterra e Olanda.
L’Italia di oggi, senza una politica industriale seria, sembra vedere la propria uscita dalla crisi ancora una volta nelle proprie risorse agricole di eccellenza, stavolta unite alle risorse culturali e paesaggistiche del paese più bello del mondo.
Sono convinto che queste siano risorse e capacità importanti per l’Italia e soprattutto per zone come la Vallesabbia, che sta cercando la direzione di un nuovo sviluppo che le permetta di uscire dalla crisi attuale.
Tuttavia non credo che siano sufficienti per mantenere il livello di ricchezza delle altre nazioni sviluppate che ci circondano.
Senza una nuova politica industriale coraggiosa, che sia rivolta al controllo dei fattori economici strategici, saremo costretti ad assistere, come nel Seicento accadde per molte città importanti italiane, al compimento infausto della parabola decadente dell’Italia degli ultimi vent’anni.
Leretico
Nella foto: I Bari - Caravaggio 1595