...ma di un ex primo ministro e attuale leader del partito di centro-destra attualmente al governo insieme al Partito Democratico.
Più il giorno fatidico si avvicina e più i due partiti amici-nemici sentono la fatica del logoramento.
Le interviste dei falchi e delle colombe di entrambi gli schieramenti fioccano come una nevicata in montagna e tutti affilano le armi per il dopo. Un dopo incerto, che non piace a nessuno, prima di tutto al Presidente della Repubblica, il quale si sta muovendo più come segretario del PD che come presidente di tutti gli italiani. D’altronde il PD è in preda a fibrillazioni pre-congresso, il cui risultato non è così scontato, e non riesce ad avere una linea unitaria su nessun argomento.
Renzi dà un colpo al cerchio (critica Berlusconi dicendo che in qualsiasi paese al mondo sarebbe andato via senza aspettare la decadenza) e uno alla botte (vuole un governo diretto solo dal PD, quindi suo e non dei perdenti da rottamare del suo partito), ma, se fossi in lui, non sottovaluterei l’anima conservatrice, la stessa in altre vesti che ha premiato il PDL alle ultime elezioni, anima profonda, appoggiata alla vecchia struttura che ancora conta nell’organizzazione del Partito Democratico.
Il PDL lamenta in questi giorni che l’alleato di governo non voglia accettare il confronto sulla decadenza di Berlusconi sul piano politico e di volerlo fare solo su quello giuridico, sul quale non resta altro che applicare la legge e comminare l’espulsione dal parlamento al capo del maggior partito di centro-destra in Italia.
Per Alfano, Schifani e compagni è chiaramente l’ultima carta da giocare, la più disperata, ma forse la più coerente.
Certo, se il PD perdesse anche questa occasione di mostrare il cartellino rosso in faccia al nemico di sempre, l’elettorato di centro sinistra avrebbe un moto di rivolta insanabile e di nuovo proverebbe quella sensazione che colpisce rabbiosamente i tifosi di calcio quando il loro beniamino sbaglia un gol facilissimo sotto porta, Bersani docet.
E allora ci domandiamo perché il PD ha accettato di giocare nella stesso team con il giaguaro e ora chiede all’arbitro la massima punizione per il compagno di squadra. Non si dovrebbe protestare prima che la partita cominci?
Se si accetta la grande coalizione non si dovrebbe cercare di eliminare il proprio sodale quando si è in corsa ed è in gioco il futuro del paese. Ne potrebbe derivare l’accusa di opportunismo.
Ma forse non è poi un’accusa così grave per come certuni intendono la politica: il fine giustifica i mezzi.
Infatti prima tentano di smacchiare il giaguaro non riuscendoci, poi accettano di averlo come vicino di banco pur di accedere all’agognata stanza dei bottoni e ora vogliono compiere un atto di portata politica estrema, senza volerne subirne le conseguenze, vedi caduta del governo, né volerne condividere, almeno per metà, le responsabilità.
E dunque, via con gli appelli alla responsabilità verso gli italiani per non fare cadere l’esecutivo, quando invece tale rischio era già chiarissimo sin dall’inizio di questa avventura delle grandi intese, voluta fortemente da Napolitano come unica ragione per la sua rielezione.
E poi diciamocelo: le larghe intese vanno bene per i tedeschi, qui da noi morto un Papa se ne fa un altro, nessuno è indispensabile, né Letta né Berlusconi né Napolitano. Possiamo cambiarli tutti e tre e non cadrà certo il mondo. Ma questo è un pensiero da coraggiosi irresponsabili, o forse no?
Devo ammettere che l’occasione di eliminare il nemico di sempre è ghiotta e allettante per il PD.
D’altro canto bisogna anche concedere che finora Berlusconi non è stato sconfitto democraticamente.
Bisogna purtroppo anche convenire amaramente che accettare che un nemico politico possa essere estromesso dalla vita democratica attraverso la via giudiziaria è una sconfitta della politica tutta, un simbolo evidente se non eclatante della debolezza di un paese in cui una parte gode delle disgrazie altrui pur di prevalere nella lotta per il potere, cosa che non solo non fa onore a chi si vanta da decenni di una moralità superiore, ma stigmatizza ulteriormente l’incapacità di battere il proprio avversario sul terreno consono alla politica: quello delle idee per un futuro migliore, su cui si deve cercare di convogliare la maggioranza dei consensi.
In Italia vige da vent’anni, innegabile, uno scontro tra centro-destra e magistratura.
Uno scontro che impedisce una sana e equilibrata discussione sulla riforma della giustizia di cui veramente ci sarebbe bisogno.
Faccio notare, e l’ho già scritto in un altro articolo pubblicato su questo giornale, che mantenere questo stato di conflitto sulla giustizia porta vantaggio a entrambi i poli che in esso si confrontano: il Berlusconi può proclamarsi perseguitato politico da un lato, la magistratura può bloccare qualsiasi riforma che la riguardi dall’altro.
Chi vede oggi la magistratura come l’unica ancora di salvezza per la democrazia fa un grave errore, tanto grave quanto quello di chi non studia la storia e si dimentica troppo facilmente di cosa ha significato per l’Italia unitaria, ante costituzione del 1948, l’assoggettamento del potere giudiziario al potere politico.
Oggi non possiamo formalmente dire che la magistratura sia soggetta alla politica, e in specifico alla sinistra, ma forse possiamo dire che la politica si fa dettare la linea dalla magistratura.
Possiamo dire che una magistratura che oltrepassa i limiti delle sue competenze, invadendo il campo della politica, sia una cosa pericolosa e da combattere.
E con una certa sicurezza possiamo affermare che ci sia tra sinistra e magistrati una comunanza di interessi, inconfessabile ma palese, nel voler eliminare in un colpo solo l’avversario della “gioiosa macchina da guerra” da un lato e il branditore di una riforma della giustizia invisa e punitiva dall’altro.
Non possiamo non ritenere responsabile la sinistra tutta, e il PD in particolare, di aver alimentato quella fiamma del bruciatore che ha gonfiato la mongolfiera dei magistrati a tal punto, che qualcuno di essi si sente ormai ad altezze così vicine al divino da aspettarsi da un momento all’altro l’affidamento della versione aggiornata delle tavole della legge (vedi caso ILVA).
Come se non ce ne fossero già abbastanza in giro di propugnatori di verità incontrovertibili con cui ci tocca combattere ogni giorno per non soccombere.
Oltre alla mongolfiera, questi magistrati si sono gonfiati anche i petti, pronti per farsi appuntare la medaglia degli eroi di patria.
Non ci sentiamo assolutamente di poterli accontentare, vista la dichiarata inefficienza degli uffici giudiziari di tutta Italia e la continua spesa pubblica sprecata per una giustizia che di fatto non c’è, sia per i tempi che per i modi in cui viene amministrata.
Lasciamo stare poi l’elenco di errori giudiziari impuniti di cui non si può parlare senza incappare immediatamente nell’accusa di essere nemici della patria, della giustizia, della verità e simultaneamente di essere amici del giaguaro, della mafia, dei corrotti e degli evasori fiscali.
Se la sinistra è dunque colpevole di aver alimentato a dismisura l’ego, e non solo, dei magistrati per fini politici, pensiamo che la debolezza di questo atteggiamento sia un difetto che tratteggia allo stesso modo anche il centro-destra: appiattito sulla figura del suo leader carismatico che in vent’anni ha fatto terra bruciata nel suo campo (ha annichilito tutti i suoi alleati), non è riuscito a fare le riforme necessarie veramente al paese (ci dibattiamo drammaticamente tra grave carenza di produttività e crescita negativa anche e soprattutto per colpa delle mancate scelte dei suoi governi), ha traccheggiato nei momenti importanti pur di salvare il suo governo ormai boccheggiante e il suo potere personale a scapito del paese, ha riempito le istituzioni di lacchè e donnine, ha fatto aumentare la spesa pubblica dimostrando di non essere diverso dal “partito della spesa” da lui tanto vituperato, si è esposto al ludibrio nazionale e internazionale con eccessi non consoni alla figura di un alto rappresentante delle istituzioni.
E questo per essere moderati nei giudizi.
Tali fatti non sono i più negativi nonostante la pur evidente gravità.
La vittoria elettorale ultima, o meglio la mancata débâcle, è figlia della paura per il futuro della parte più conservatrice della nostra società, di chi ha creduto nell’abolizione dell’IMU e accetta in silenzio la farsa che andrà sotto il nome di Service Tax, di chi vede nel cambiamento una minaccia alla propria ricchezza e ai propri ingiusti privilegi, di chi non ha il coraggio di ammettere che il paese è in decadenza anche e soprattutto per la mediocrità di una classe dirigente che non ha idea di come costruire il proprio futuro e cerca di difendere le posizioni sacrificando a tale scopo giovani e anziani, i primi senza lavoro e i secondi senza pensione.
Come può questo tipo di forza politica e sociale voler cambiare veramente il paese? Non si è mai visto che i sazi combattessero per gli affamati né mai si vedrà.
In conclusione il ventennio che è appena trascorso ci ha consegnato un’Italia estenuata dalle lotte di potere, incapace di trovare la sua strada dopo il cambiamento epocale avvenuto con la caduta del muro di Berlino nel 1989.
La nostra attitudine alla “servitù volontaria”, per dirla come Etienne De La Boetie, ci impedisce di prendere le decisioni giuste e non si illudano quelli che ancora sperano in «quelli che vengono dopo... » perché quest’ultimi «servono senza alcun rincrescimento e fanno volentieri ciò che i loro padri han fatto per forza».
Leretico