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23 Ottobre 2012, 09.00

Terza pagina

Nascita, morte e trasformazione 1.3

di Dru
Con la metafisica la persuasione che l'ente in quanto ente sia niente sopraggiunge insieme alla persuasione che l'ente è eterno, in quanto è un certo ente, privilegiato, "divino"
 
Di Francesco Cardone tesi su Severino Emanuele, estratto.

Con la metafisica la persuasione che l’ente in quanto ente sia niente sopraggiunge insieme alla persuasione che l’ente è eterno, in quanto è un certo ente, privilegiato, “divino”. Si può anzi dire che l’eterno è la condizione della libertà del perituro, ma anche il contrario, ossia che la persuasione della nientità dell’ente è il fondamento dell’affermazione dell’eterno. Questo reciproco rispecchiarsi è possibile solo con l’ε̉παμφοτερίζειν (oscillare) dell’ente. Questo significa anche che il pensiero metafisico, restando fermo sul fondamento della nientità dell’ente, scorge il naufragio di ogni affermazione dell’eterno, nel senso che l’affermazione dell’eternità è voluta dal mortale come legame di quel particolare ente all’essere, ma esso naufraga perché si contrappone alla libertà dell’ente in quanto ente dall’essere. Proprio per l’evidenza di tale libertà gli eterni, nella storia dell’Occidente, sono destinati al tramonto: qui l’essenza dell’età della tecnica. Il tramonto dell’eterno sta anche nel fatto che l’ente eterno essendo il senso del tutto, quindi anche degli enti divenienti, quelli cioè che sono niente (in quanto divengono niente), contraddice se stesso. Se cioè l’ente eterno è eternamente legato all’essere non può raccogliere l’ente che è libero di non essere. L’evidenza della libertà dell’ente richiede quindi il tramonto degli eterni.

È il senso della cosa che porta alla forma estrema della volontà di potenza. Essa si esprime come volontà di guidare l’oscillazione tra l’essere e il niente, ossia sulla volontà di separare l’ente dal suo “è”, rendendolo disponibile all’essere ed al niente. È questa disponibilità che la volontà vuole. Allo stesso modo il disponibile, l’ente come ε̉παμφοτερίζειν, è anche una minaccia per la volontà, perché, progettando di dominarlo, può anche fallire nel suo intento. La volontà vuole che l’ente sia contingente, ma volendo questo implica anche l’insicurezza del suo dominio.

La storia della metafisica può essere intesa come il progressivo liberarsi degli immutabili, il suo allontanarsi dalla verità ferma e stabile: l’ε̉πιστήμη (episteme – ciò che sta). È l’evidenza della libertà dell’ente ad esigere la distruzione di ogni sapere incontrovertibile. Questa progressiva emancipazione del divenire dagli immutabili comporta anche che l’evidenza della libertà dell’ente è per la metafisica una forma di sapere incontrovertibile, ossia epistemica. Quindi l’ε̉πιστήμη unisce in sé due tratti contrastanti: da una parte pensa l’ente come oscillazione tra l’essere e il nulla, dall’altra vuole determinare in modo incontrovertibile il senso dell’ente, in quanto ente. Ma la seconda forma di ε̉πιστήμη rende impossibile la prima forma di ε̉πιστήμη, come anche il contrario. Se infatti l’ente è ε̉παμφοτερίζειν, qualsiasi determinazione incontrovertibile dell’ente è negata. Se l’ente esce e ritorna nel niente non può essere oggetto di una verità epistemica, in cui ogni ente ha senso rispetto al tutto dell’ente, indissolubilmente legato ad esso. L’ente che esce dal nulla è novità assoluta che, appunto, mette in questione ogni verità posseduta. L’ε̉πιστήμη (episteme – ciò che sta) , allora, può essere solo verità storica, espressione del senso secondo il quale l’ente si crea di volta in volta nel suo divenire. Diventando verità storica, l’ε̉πιστήμη (episteme – ciò che sta) diventa scienza epistemica e sperimentale, passando da scienza del tutto a scienza della parte. Il culmine di questo processo si ha nell’epoca della tecnica, nell’epoca dell’ipotesi e della specializzazione scientifica. Nella forma estrema del nichilismo – la coerenza del nichilismo – l’ente è ad un tempo diverso dal niente e uguale al niente. Tali contrapposizioni non stanno sullo stesso piano: la persuasione che l’ente sia niente è l’inconscio dell’Occidente che non può raggiungere, perché questo comporterebbe l’identità degli opposti, cosa che sia logicamente sia fenomenicamente è impossibile; la persuasione che l’ente sia diverso dal niente è l’inconscio dell’inconscio dell’Occidente che esso può raggiungere, appunto perché afferma l’identità dell’ente con se stesso che in quanto tale nega il suo essere identico al suo opposto.

Il nichilismo nella sua coerenza diventa negazione incontrovertibile dell’incontrovertibile.

Nell’ε̉παμφοτερίζειν l’ente non è solo libero dall’essere e dal niente, ma anche il modo in cui diviene è libero, in sostanza  l’ε̉παμφοτερίζειν (oscillare)  è la contingenza assoluta dell’ente. La storia è libertà, perché avrebbe potuto realizzarsi in modo del tutto diverso da come in effetti si è realizzata. A tale libertà appartiene il libero arbitrio dell’uomo.

Nel pensiero greco la libertà dell’ente viene fondata in modo rigoroso dalla dottrina aristotelica dell’essere, intesa come passaggio dalla potenza all’atto. Tale passaggio per Aristotele non è necessario ma contingente, ed indica l’essenza del divenire: che un ente in potenza divenga atto, ossia “è”, non è necessario ma contingente. Nella prospettiva della contingenza un ente ha la possibilità di non essere come anche di essere solo fin tanto non è ancora, quando invece entra nell’apparire quest’ente non ha più la possibilità di essere, ma solo di uscire dall’apparire. A rigor di termine un mondo che ancora non esiste ma che potrebbe esistere non è un contenuto dell’apparire, perché appunto non appare nell’attualità. Si coglie insomma che dalla prospettiva del nichilismo non vi è connessione alcuna tra ciò che appare e ciò che non appare. In tal senso in termini aristotelici la capacità di un ente di passare all’atto non appare prima che l’atto si compia, solo quando appare si coglie la sua capacità (potenza) di apparire.

Nel linguaggio nichilistico «l’azione è la volontà di potenza che fa passare la cosa dal non essere all’essere; l’essere, in quanto azione nominata dal verbo, è il contenuto della forma originaria della volontà di potenza, che, proprio perché vuole l’ε̉παμφοτερίζειν della cosa, vuole l’«essere» come lo stare in equilibrio sulla cosa avendo la possibilità di cadere da essa». Nel linguaggio del destino tale caduta (πτω̃σις) non riguarda l’essere ma l’apparire dell’ente.

La coerenza del nichilismo perfettamente compiuta nella nostra epoca esige l’affermazione del nesso necessario tra la parte e il tutto diveniente. Ma la necessità di questo nesso è la necessità che l’ente in quanto tale sia libertà (ε̉παμφοτερίζειν-oscillazione), ossia sia diveniente e quindi storico. Da questa prospettiva nulla è al di fuori del processo storico. La storia diventa il tutto diveniente a cui, dopo la distruzione di tutti gli immutabili, tutto deve sottostare. La dialettica diventa l’unico metodo adeguato alla realtà diveniente, in cui l’ente si mostra in termini diacronici (l’uscire dal nulla, lo stare temporaneamente nell’essere e il ritornare nel nulla). Il divenire esige che il tutto sia diveniente. Il carattere diacronico del divenire è compiutamente realizzato dall’età della tecnica, perché ne accentua il suo carattere ipotetico, ossia la nientificazione dell’ente. Con la tecnica il dominio nichilistico dell’ente si porta al suo compimento. Con esso si ha il tramonto di qualsiasi nesso sincronico: tra gli enti ciò che domina è solo il nesso diacronico.

Nell’ε̉πιστήμη, nel sapere assoluto e incontrovertibile, ogni nesso necessario è un nesso sincronico, «perché l’esistenza stessa del nesso necessario in quanto tale rende “sincronico” il tutto e rende ogni parte necessariamente connessa alla sincronia totale». Se la volontà di potenza si pone come ε̉πιστήμη (episteme – ciò che sta)  lega necessariamente a sé il tutto e tra loro le parti del tutto. Se poi tale volontà di potenza si propone di controllare il divenire (nichilistico) è inevitabile che il tutto divenga una totalità organica, e quindi sincronica. Ma l’evidenza nientificante del divenire vanifica ogni tentativo di un’ε̉πιστήμη del tutto, vanifica il carattere sincronico del tutto, portando all’unico carattere che il divenire può assumere, quello diacronico, che rappresenta la disorganicità del tutto. Se quindi il sincronico indica l’organico, il diacronico mostra il disorganico del tutto, il suo essere ipotesi. L’ ε̉πιστήμη è destinata al tramonto, perché un’ε̉πιστήμη del divenire nichilistico si contraddice da sé. Il nichilismo impedisce l’ε̉πιστήμη (episteme – ciò che sta) perché rende disorganico l’organico. Se infatti un ente esce dal niente non può avere nessun rapporto necessario con l’ente preesistente, ogni ente diveniente è quindi isolato sia rispetto al tutto sia rispetto ad ogni altro ente, rendendo impossibile qualsiasi forma di sapere epistemico. A fondamento del nichilismo c’è l’isolamento dell’ente dal tutto, ossia la negazione del nesso necessario sincronico tra la parte e il tutto, portando nell’isolamento e nella conseguente contingenza il tutto diveniente.

Il dominio della τέχνη (tecnica) presuppone tale isolamento dell’ente. Anzi, possiamo dire che qualsiasi dominio presuppone l’isolamento dell’ente, il suo uscire e ritornare nel niente, libero di essere come di non essere. Ecco allora che l’essenza della volontà di potenza è la volontà di libertà, la volontà che l’ente sia disponibile sia all’essere che al niente (ε̉παμφοτερίζειν-oscillazione).

È interessante, a questo punto, mostrare il rapporto linguistico che vi è tra “dominio” e “isolamento”. Il dominio è dominus che è τὸ δαιμόνιον, il «dèmone», il separante (δαίμων, «dèmone», δαίομαι, «separato»). Quindi il dominio che si impadronisce delle cose modificandole è possibile solo sul fondamento del dominio che si impadronisce delle cose isolandole dal tutto.

Il dominio così inteso non nega il divenire, ma lo guida, proprio perché esso si fonda sul presupposto dell’assenza di qualsiasi legame necessario. Così inteso tale dominio può dare uno scopo all’ente, scopo non assoluto ma ipotetico. Lo scopo che noi attribuiamo all’ente presuppone il suo essere isolato dal tutto, libero appunto per lo scopo. In più nell’ambito della specializzazione scientifica non vi può essere uno scopo che unifichi tutto il campo scientifico, perché, di nuovo, questo presupporrebbe dare un nesso necessario a ogni ente, considerandolo come un tutto organico. L’unità dello scopo si trasforma in una molteplicità di scopi, in una parzialità sempre maggiore del tutto. La scienza odierna guida il divenire solo se si dà una molteplicità di scopi; solo quindi se la scienza diventa sempre più specializzata domina l’ente nella sua totalità: ecco la coerenza del nichilismo. La molteplicità dello scopo indica la parzialità di ogni scopo, ossia il suo essere, una volta realizzato, l’inizio di un altro scopo. Questo processo non porta all’esaurimento degli scopi ma al suo infinito moltiplicarsi. È questo il modo in cui la tecnica si è sviluppata e sta affermando il suo completo dominio su tutto l’Occidente, e quindi su l’intero pianeta.

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