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25 Maggio 2012, 10.30

Lettere

Ricordando Dietrich Fischer-Diskau

di Davide Bondoni
Davide Bondoni ci parla di un grande interprete della cultura musicale operistica e melodrammatica, recentemente scomparso.

 
 
Come penso risulti chiaro dai miei vari articoli e commenti, mi interessano anche le cose piccole e familiari, ma solo se esse sono inscrivibili in un contesto più ampio che dia loro significato.
Spendiamo troppo tempo a guardare la crescita del nostro orticello.
Non c'è nulla di male nel farlo. Anzi, è doveroso se si vuol raccogliere qualcosa, ma non basta.
 
Per questo motivo, anche se non rientra nell'immaginario valsabbino, mi sembra lo stesso giusto e doveroso ricordare la figura di Dietrich Fischer-Dieskau, morto venerdì all'età di 87 anni.
Dieskau non ha paragoni né prima, né dopo di lui.
Smise di cantare nel 1993, ma rivoluzionò in maniera radicale la maniera di cantare.
 
Giustamente, si ricorda di lui l'attività svolta a cantare tutta la liederistica schubertiana, romantica e mahleriana.
Il Lied è una forma musicale piuttosto ostica e apparentemente relegata al mondo austro-germanico.
Non è così. Dieskau riuscì a riempire anche le sale da concerto.
 
Immortale la collaborazione per 30 anni con il pianista Gerald Moore.
Dieskau stravolse anche il rapporto tra cantante e pianista (come ha ricordato in questi giorni il pianista Alfred Brendel sul Frankfurter Allgemeine), conferendo al pianista un ruolo da protagonista e da collaboratore.
 
E che dire del suo specifico modo di cantare?
Per lui non esisteva la dicotomia “prima la parola, dopo la musica o viceversa” (il direttore Daniel Barenboim oggi semrpe sul Frankfurter) parola e musica venivano fusi insieme.
Per questo motivo, egli fu essenziale per comprendere il declamato wagneriano.
 
Indubbiamente, il novecento ha annoverato altri grandi cantanti, ma Dieskau è rimasto una pietra miliare.
Brendel l'ha paragonato ai grandi maestri come Beethoven che osavano e rivoluzionavano il sentire la musica.
Inoltre, proponendo la liederistica tedesca in tutto il mondo, Dieskau fece conoscere anche l'universalità e la profondità dello spirito tedesco che dopo la seconda guerra mondiale rischiò di essere confuso spesso con la barbarie nazista.
 
Era un grande intellettuale e aveva un raro dono: il garbo.
Un grande signore e modello anche di comportamento.
Mi viene alla mente una delle sue ultime foto, con un paltò nero, mentre camminava sul tappeto ingiallito delle foglie di un bosco.
Il piede che ha quasi timore di offendere le foglie e che pure si impone con autorità.
A dimostrare che l'autorità non deriva né dalla forza, né da chi grida di più, né da chi insulta nel modo peggiore.
 
Con lui se ne è andato uno dei più grandi maestri del novecento e quella porta che stava per chiudersi con la morte di Karajan (1989) e Bernstein (1991), si è definitivamente serrata.
 
Non sono in grado di ricordarlo degnamente.
Penso che aver almeno messo l'indice sul suo ruolo nel riconoscere in Schubert l'origine del dramma wagneriano (Sablich in “L'altro Schubert”) fosse doveroso.
Io l'ho ricordato eseguendo tre preludi e fughe dal secondo libro del clavicembalo ben temperato di Bach (di cui fu insigne interprete), il movimento lento dall'ultima sonata schubertiana (straziante come pochi) e alcune danze sempre di Schubert che il compositore austriaco scrisse per la gioia dei suoi amici.
 
Non ho mai avuto la gioia di parlagli o di incontrarlo, ma mi mancherà.
La cultura universale ha subito una grave perdita.
 
Ed è giusto parlare di cultura in un momento come questo, sebbene molti non capiscano la sua pertinenza con il mondo pratico.
Come scrisse il maestro Abbado “uno stato non è colto perché è ricco, ma è ricco perché è colto”.
 
La sua casa discografica lo ricorda alla pagina seguente:
 
 
Permettendo un ascolto di alcune sue immortali esecuzioni.
 
Con affetto, Davide

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