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10 Dicembre 2012, 10.30
Lodrino
Storie

Il fronte russo nel racconto del lodrinese Vigilio Bettinsoli

di Fonte: Edmondo Bertussi, «Bresciaoggi», 5 dicembre 2012
Ha 90 anni ma stampato in volto il sorriso di chi è riuscito a tornare dal fronte, facendo migliaia di chilometri a piedi prima di tornare nella sua Lodrino. Lì vive ancora Vigilio Bettinsoli, ultimo superstite in Alta Valle della ritirata di Russia
 
Il 25 ottobre era a Brescia nell´auditorium di S. Barnaba, ritto col cappello alpino in testa a ricevere dalle mani del Prefetto Narcisa Brassesco la medaglia d´onore della Presidenza della Repubblica alle vittime di deportazioni e internamenti nei campi nazisti: è uno dei 17 viventi tra i quaranta bresciani insigniti dell´onorificenza.
 
Il 4 novembre a Lodrino il sindaco Iside Bettinsoli gli ha consegnato la medaglia d´argento dell´Associazione provinciale Combattenti e Reduci. Nella festa dei suoi 90 anni, il 15 luglio scorso, il regalo che più lo ha emozionato è stata la lettura della tesina della maturità del nipote Marco dove è il «testimone» intervistato della seconda guerra mondiale.
 
Si chiama Vigilio Bettinsoli (Giglio), lodrinese figlio di Giovanni (Gianì), l´ultimo superstite in Alta Valtrompia della ritirata di Russia. Il 23 gennaio del 1943 era col suo Valchiese, 255a compagnia, 6° Reggimento Alpini della Tridentina, al comando del capitano Luciano Zani goriziano di Cormons (una delle rare medaglie d´oro al valore concesse a viventi che ritroverà in un lungo abbraccio nel 1986 prima della sua scomparsa nel 1992) all'attacco a Scheljakino sulla salita dopo la conquista di un ponte strategico e il 26 a Nikolajewka. 
 
Aveva compiuto i suoi vent´anni in Russia, in marcia verso il Don, due giorni prima dell´inizio (17 luglio) della battaglia di Stalingrado della Sesta Armata del generale Friedrich Paulus. Sta ancora su, sopra il Dosso di Lodrino, nella sua cascina Piantù (deve il nome ad un grosso famoso ciliegio): la si raggiunge in pochi minuti a piedi dopo l´ultima casa dalla frazione deviando a sinistra su comoda sterrata.
 
Mentre lo sguardo indugia sulla vallata che degrada e s´imbruna impreziosita dagli ultimi colori dell´autunno e il cielo trascolora verso il Golem arriva la Lea, una femmina di pastore bergamasco, grigia che sembra un palla arruffata di lana, fa festa alla Angiolina (figlia del Giglio) e corre indietro verso la casa bianca lì sopra in mezzo al prato ad avvertirlo.
 
Ancora due passi e appare lui col suo sorriso incorniciato nella lunga barba e quegli occhi pungenti dietro le lenti degli occhiali sotto la becca del berretto di lana. Il capanno di caccia è lì vicino. Ha rifatto la licenza a maggio. «Ma la mira è ancora giusta?». «Quatòrdes sciopetade, quatòrdes durcc el dè dé la furia» (Quattrordici fucilate,quattordici tordi nel colmo del passo), risponde mentre si avvia verso la stalla, linda come una sala di casa, per rabboccare il fieno nella mangiatoia alla suo Sperta, un bel capo di bruna-alpina (la mè compagnia) che in primavera gli ha fatto un vitello.
 
Entrando in cucina si vede subito in un angolo la «cagiàda» della mattina nella tonda «fasèra», (fascia di legno) sul ripiano sagomato a gocciolare siero, già rassodata in formagella: «Ne faccio una ogni due giorni». Poi le regala ai suoi e agli amici perché «sono necessarie ai ragazzi per crescere». Sulla stufa accesa brontola la minestra di verdure. Mette la moka per il caffè, sparisce un momento e torna col suo cappello alpino: una reliquia che ha ormai 70 anni, con la targhetta del Valchiese, la croce di guerra, il distintivo del fronte russo. «I miei vent´anni li ho compiuti a combattere sul Don». 

Racconta e descrive tutto come fosse ieri: la leva a 19 anni; quella foto con dedica prima di partire il 23 giugno con il Mussolini scarabocchiato; le decine di giorni a piedi per arrivare alla «fredda Russia»; la sua squadra «dè chèi bèi» (graduati, cucinieri ecc.) dove lui era l´unico del 22; il battesimo del fuoco in una foresta; la partenza della squadra verso il Don con gli ufficiali che dicevano ´Andiamo a Stalingrado!´.
 
Arrivarono sul Don: «Sapunà, sapunà, sapunà» riassume così quei giorni col continuo picconare per scavare trincee, costruire ripari e alloggi sotto terra mascherati sopra smontando pezzo per pezzo le isbe esterne. «Il rancio arrivava se arrivava una volta al giorno; il termometro segnava -50°; si facevano turni di sentinella di dieci minuti perchè di più congelavi.
 
Guardavamo quasi negli occhi i russi trincerati di fronte a noi senza sparare. Il 17 gennaio 1943, festa di S. Antonio, alle 5 è iniziata la ritirata. Magazzini e depositi erano stati dati alle fiamme». Prende una vecchia, piccola foto dal suo portafoglio con la data del 23 gennaio: una marea umana sulla salita di Scheljakino dove il Valchiese si sacrifica per conquistare il ponte e la cima del dosso dal quale si domina per scendere verso il paese. «Siamo stati i primi col capitano Zani all´assalto, dovevamo superare in salita alti steccati di legno piazzati dai russi sulla neve...».

Il 26 lo sfondamento dell´accerchiamento russo a Nikolajewka e poi quasi 800 km a piedi, trentasei giorni trascinandosi sulla neve per arrivare a Gomel da dove partirono le 17 tradotte verso l´Italia. Gli occhi si inumidiscono: «Avevo problemi alle gambe: per quasi 20 giorni sono andato avanti attaccato alla cintura del Tone dè la Nano di Invico (Antonio Bettinsoli classe ´17 è andato avanti nel 2000) e ci siamo salvati: pesavo 70 kg, erano diventati 47». Kiev, Cracovia, l´Austria, il Tarvisio, la «contumacia» (pulizia) a Camporosso: «Ho spedito una cartolina ai miei il 12 marzo: è arrivata a Lodrino dopo di me.
 
Ci hanno lasciato a casa a maggio poi via al Colle Isarco, Gorizia, Vipiteno per finire l´8 settembre prigionieri dei tedeschi: allineati sei per sei a piedi fino a Innsbruck, una settimana in un prato senza mangiare poi in campo di concentramento in Prussia (campo B), a Amburgo, trattati come bestie da lavoro. Li liberarono il 3 maggio del 45 gli americani e il 20 agosto era a Lodrino. È notte. Una delle galline lì fuori salta su alla finestra e picchia sui vetri quasi a chiamarlo. Si alza, lo segue la gatta: deve rinchiuderle nel pollaio.
 
Ritorna: offre un bicchiere di rosso e salame stagionato e profumato, ma lui mangia due biscottini, beve un bicchiere di acqua, poi cenerà con la sua minestra: è attentissimo (conferma la figlia) e parco in modo scrupoloso. Racconta ancora: contadino in Svizzera 4 anni, 11 operaio alla Om a Milano,15 alle Officine Valtrumpline di Buffoli, 2 alla Beretta, la pensione ed il ritorno alla vita contadina.
 
Nel '52 si era sposato con la sua Giuseppina Attilia Bettinsoli (ramo Biondèli) persa nel 72: ha quattro figli Irene, Angiolina, Giuliana e Gianni che ora in pensione gli fa spesso compagnia, otto nipoti. Sta bene: sempre in movimento, usa il telefonino per stare in contatto coi suoi, non perde un telegiornale, è da una vita il Presidente dei Combattenti e non manca mai alle cerimonie civili o religiose con la bandiera. Si esce dalla calda cucina per il commiato.
 
Si guarda attorno: «Sò contènt, contènt qui sui monti, nella mia casa, con le mè bestie, i miei che mi vengono a trovare, il paese a due passi, le feste con tanti amici. Mi alzo la mattina ed è subito sera...».
 
Nelle foto, dall'alto in basso: un primo piano di Vigilio Bettisoli, una cartolina che lo ritrae 19enne, visuale di Sheljakino il 23 gennaio 1943, quando gli italiani superarono lo sbarramento russo.
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