Un film del 2006 diretto da Alejandro González Iñarritu, con Brad Pitt, Cate Blanchette, Adriana Barraza, Gael Garcia Bernal, Rinko Kikuchi. Genere: drammatico. Durata: 144 minuti
Un mosaico di vite disperse
Nella malinconica melodia dell’incomprensibilità tracciata da Alejandro González Iñarritu ognuno è sordo alle voci dell’altro, che sia prossimo o lontano. Non capirsi, non comprendersi: piomba su di noi già dal titolo (Babel) questo precipitato biblico. Un disperdersi moderno nella terrena babele d’incomprensioni e ostacoli che gli uomini pongono sulla strada della reciproca convivenza. Un film di lingue Babel, che solo nella versione originale incide come un marchio a fuoco lo spettatore: in questo caso, il doppiaggio italiano dei personaggi attenua l’intento del regista di rendere la violenta dissonanza dell’incomunicabilità (quando non lo svilisce traducendo in un controverso italo - spagnolo la voce di Santiago (Gael García Bernal).
Babel rappresenta la tragedia del mondo secondo la partitura del dolore. Dolore che spezza, spacca, lacera, che manda in frantumi e ben si adatta all’intreccio di un montaggio che confonde i tempi, rimbalzando tra futuro e passato, prima di allineare nel finale i vari presenti. Ricongiunzione di storie disperse nello spazio, ma intimamente e segretamente collegate nel tempo. Tecnica del racconto in parallelo che prende spago a ritroso da tre tele differenti, nelle quali Los Angeles faceva da sineddoche al groviglio del mondo: dalle vite sfilacciate di Crash – Contatto Fisico (2005) a quelle dimenticate di Magnolia (2000) sino all’altmaniana esplosione di esistenze disintegrate di America Oggi (1993).
Il montaggio alternato è condizione quasi necessaria al racconto di storie così lontane eppur così vicine fra loro. Frammenti (inconsapevoli) di un medesimo grande specchio, dove il tempo va in pezzi come riflesso del tempo interiore, quello della memoria, che nella nostra testa sempre si sfalda in immagini sovrapposte e indistinguibili. Immagine, forse la lingua comune che possiamo condividere. Potremmo guardare il film senza capire nemmeno una delle lingue parlate e nonostante ciò entrare nell’animo dei personaggi, in movimento su un fondale di questioni in apparenza più grandi degli uomini (terrorismo, controllo, tolleranza), in realtà questioni di cui gli stessi uomini sono soluzione.
Come vagoni spezzati, che viaggiano su binari diversi, assistiamo allo scorrere di quattro storie, e la locomotiva trainante è il matrimonio in crisi di Richard Jones (Brad Pitt) e sua moglie Susan (Cate Blanchette). L’incidente è il colpo che muove tutto. Per Iñarritu è sempre stato così, dalle vicende cupe di un’infernale Città del Messico nell’acclamato Amores Perros al drammatico mosaico statunitense di 21 grammi – Il peso dell’anima. Ora, in Babel, si completa questa ipotetica trilogia sulla cupezza di vite in dissolvenza.
Territorio principe dell’intricato puzzle è il Marocco: il mondo sembra rinchiudersi nel minuscolo villaggio di Tazarine, dove si materializza la paura dell’estraneo, del non conosciuto, il pregiudizio (già strisciante nella bottiglia di ghiaccio rovesciata da Susan in una delle prime scene). La diffidenza dei turisti nel guardare gli abitanti del piccolo paese: provvisoria presenza di uomini giunti per vedere terre lontane, ma senza volerle realmente guardare; perché questa è un po’ la condizione del viaggiatore: non compromettersi mai, restare escluso dai luoghi che percorre, pur occupandoli. E al contempo l’insensibilità di quei turisti, capaci di fare una cosa soltanto: andarsene, abbandonare. Così, nella stanzetta misera di Tazarine si condensa il dolore di un uomo e una donna, ma è un dolore che partorisce amore, il riannodarsi di un legame coniugale nella lacerazione della tragedia: un proiettile ha colpito Susan sul pullman e ora la sta dissanguando, ed è come se tutto il film fosse attraversato da quel proiettile, dal colpo di fucile sparato per gioco da due bambini.
Una capsula esplosiva che rimbalza nel mondo, dal Marocco all’America al Giappone, e nel suo girovagare fa salire al cielo della visione tre pesanti nuvole in forma di carrozze disperse. La povera e umile vita di una famiglia di pastori nel deserto marocchino: l’esistenza premurosa di Yussef, che bada alla moglie e ai tre figlioli, le schermaglie dei due maschi, la scoperta della ‘femmina’ da parte di uno dei due nello spiare di nascosto la sorella, le risa, i rimproveri e sopra tutto questo, nella polvere da sparo esplosa dal fucile, un alone nero e invisibile, il sempre vivo sospetto del terrorismo, materializzatosi nella semplicistica equazione che ha come secondo termine ‘arabo’.
Dalla polvere silenziosa del deserto marocchino alla polvere assordante di un Messico caotico, un paese che si contenta di poco, di balli e musiche e sorrisi, ma che sempre cova nascosto (qui nella figura dell’irruento Santiago) il rancore per il gringo e l‘ordine costituito, sollevando così in cupe volute un altro problema: quello della frontiera tra U.S.A. e Messico, di due mondi che si guardano a muso duro dai tempi di Alamo. Un matrimonio latinoamericano coniugato nella figura della tata Amelia (Adriana Barraza) e poi diventato divorzio irrevocabile: Amelia espulsa per sempre dagli Stati Uniti d’America, dove ha vissuto per sedici anni. Non c’è più posto per lei, chi sbaglia paga e il perdono non è contemplato.
Il proiettile si fionda a Tokyo, in Giappone, dove si compongono le tessere disordinate di una vita da adolescente. La vita anormale di una ragazza sordomuta, in conflitto con il padre vedovo. Chieko (Rinko Kikuchi) che si sente un mostro, distante da tutti, e vorrebbe soltanto toccare qualcuno, per poter dire a se stessa di essere come gli altri. Uniformarsi per esistere. Bisogno del contatto che arriva in quel suo concedersi nuda al giovane poliziotto. Nuda nel rivelare la mancanza della madre morta, una presenza-assenza che scava pesantemente nell’animo, avvicinando la memoria di qualche spettatore alla protagonista di Samaria del regista coreano Kim-Ki-Duk.
Storie che s’incastrano in un babelico mosaico, in un insieme dove ogni cosa è saldata dalla colonna sonora di Gustavo Santaolalla: reticolo di note che cala sulle immagini con la voce del monito. Anticipazioni dette con la lingua della musica, momenti di sospensione per il pensiero, libero di vagare nell’assenza di dialogo e perciò disposto all’ascolto. Ascoltare le parole delle note, ogni volta pronte ad annunciare qualcosa di nuovo, come il sussurro di un angelo caduto in terra. La musica ci sprofonda nella malinconia degli errori umani, diventando il grimaldello per il cambiamento. Quella ricomposizione che avviene alla fine del film, chiuso dai dolenti suoni di pianoforte e archi di Bibo No Aozora eseguita da Ryuichi Sakamoto. E nelle luci della città che si allontana in zoom-out lasciamo queste vite cicatrizzate che serbano la ferita del medesimo proiettile.
Nelle foto, dall'alto in basso: la locandina del film, Brad Pitt e Cate Blanchette durante una scena, il regista Alejandro González Iñarritu, il musicista Gustavo Santaolalla.
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