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13 Novembre 2011, 15.43

Cinema - Recensione

L'enigma di «Donnie Darko»

di Andrea Alesci
Un film del 2001 scritto e diretto da Richard Kelly, con Jake Gyllenhaal, Drew Barrymore, Patrick Swayze, Jena Malone. Pellicola di genere fantastico, durata 113 minuti
L'oscuro enigma che illumina il mondo
Chi è Donnie Darko? Esiste un ordine immutabile? Qual è la verità? Che cos’è la realtà? Siamo vivi o siamo un sogno sognato? Vibranti questioni si sollevano nell’opera d’esordio di Richard Kelly: sollecitazioni, domande, interrogativi per indagare un problema.
 
Problematico, Donnie Darko: il ragazzo del quale seguiamo il fragile e tortuoso cammino; e il film, che in poco meno di due ore condensa ventotto giorni di vita di una parte di mondo. Donnie Darko sonnambulo, uomo-ombra, principio di schizofrenia. Sin dall’inizio disturbato: ed è il disturbo che ci accompagna nello srotolarsi della pellicola, con il ghigno profetico stampato sulla faccia di Donnie (Jake Gyllenhaal). Legame lungo con quello del Noodles di Sergio Leone, sottile filo che parte nell’America anni Trenta in una fumeria d’oppio e pare riannodarsi nel presente di un’America alle soglie degli anni Novanta, nella stanzetta di un adolescente. Mobile collegamento, da chi è stato sconfitto dal tempo a chi non si arrende e lo affronta. Perché è di movimento che si parla nel film di Richard Kelly, scorrazzati in giro per le ordinante vie di Middlesex (quale dei tanti?) dalla mente di un ragazzo confuso, malinconicamente appoggiati alle note di popolari canzoni anni Ottanta che segnano il passo: dall’iniziale The Killing Moon (Echo & the Bunnymen) al manifesto/grimaldello Mad World dei Tears for Fears (qui nella malinconica cover di Gary Jules), che accompagna Donnie nel suo incedere e ne segna la fine.
 
Segnico, Donnie Darko. Segni, chiari come cartelli su un frigorifero: Where’s Donnie? – Vote Dukakis – Frank wash here. He went to get beer. Comunque, un film che non si sgancia mai dalla realtà, quella di un Paese vicino alle elezioni presidenziali. Siamo nel 1988, in piena campagna elettorale fra Michael Dukakis e George Bush, sfida che dai tempi di Kennedy vs Nixon è battaglia combattuta nell’arena televisiva. La stessa superficie liscia dove appare uno dei guru della felicità, limpido mangiasoldi che qui ha nome Jim Cunningham (Patrick Swayze). Un mondo dove conta l’apparenza, salvare la cornice senza accorgersi di perdere il quadro. Donnie Darko rimane abbagliato dall’insensatezza di queste situazioni reali: segno, il sole che quasi lo acceca quando si sveglia al mattino in un campo da golf; la luce troppo intensa combattuta con l’oscurità di un agire misterioso, quel mistero che già nel suo incipit battesimale denuncia affinità con le tenebre: Donnie Darko. “Donnie Darko, che razza di nome è? Sembra il nome di un supereroe”, gli dice Gretchen (Jena Malone). “Chi ti dice che non lo sia”, risponde Donnie. Come a dire che non possiamo mai sapere chi siamo, che a volte siamo chiamati a compiti più grandi di noi, però da portare avanti, che devono essere fatti.
 
Prove che Donnie supera muovendosi nell’onirico territorio orchestrato dal regista. Una ricerca sul senso della vita che ci viene mostrata nell’incontro/scontro tra Donnie e Frank (James Duval), surreale coniglio gigante. Eroe e alter ego, l’uno che si sdoppia. Un artista, latente anima da scrittore, come rivela a Gretchen. Lo scrittore come parossismo della schizofrenia: deve esserlo per creare, per de-scrivere una realtà che si sovrapponga all’altra, alla “follia prestabilita”, come la definisce la signorina Karen Pomeroy (Drew Barrymore). Quell’insegnante che fa leggere Graham Greene e il suo racconto “The Destructors”, perché come intuisce Donnie “il distruggere fa parte dell’atto creativo”. Ma il potere di creazione va indirizzato: ecco il legame amoroso fra Donnie Darko e Gretchen Ross, tranquillante del suo nevrotico procedere. Donnie è turbato, scosse acuite dalla frase che “Nonna Morte” (Patience Cleveland) gli sussurra all’orecchio: “Ogni creatura sulla terra quando muore è sola”. Ma “io non voglio restare solo” replica alla dottoressa Lilian Thurman (Katharine Ross) che lo ha in cura. Donnie sa che deve portare a termine la sua missione, ma è soltanto un uomo, e come tutti gli uomini ha paura della solitudine, ha paura della morte.
 
Il suo cammino è una continua scoperta, che si gioca nel tempo e muove dal passato della vecchia “Nonna Morte”: il suo vero nome è Roberta Sparrow, una volta insegnava, poi scrisse “The Philosophy of Time Travel” e tutto cambiò, da allora eccola vagare in cerca di qualcuno che la capisca, passero solitario dimenticato da tutti. O quasi, perché ora c’è Donnie Darko, con la sua maschera da coniglio Frank, specchio di un se stesso che ferisce, tenta di scalfire, solo per sentire che è ancora vivo. Scalfire con un puntello surreale le brutture di un’intollerabile realtà. Infrangere il muro della bigotta insegnante di educazione fisica Kitty Farmer (Beth Grant), pronta a dividere la linea della vita in due categorie (paura e amore). Muro che affiora alla superficie: la linda facciata di Jim Cunningham, l’ossequio al suo dogma di manichea purezza. Un muro che esclude ogni altra cosa, ogni altra emozione, ridotta a entità spettrale e così condannata all’inesistenza. E ogni cosa spiacevole viene spazzata via, Kitty Farmer teme di pronunciare parole come “pedopornografia” e “pedofilia”, quelle parole che dipingono a tinte indelebili l’abiezione del suo profeta e di qui le nefandezze dell’uomo.
 
Ma ogni cosa va svelata, un nuovo mondo è possibile e tutto può partire dalla parola, da una parola: “Cellar Door” (porta della cantina). Parola che per J. R. R. Tolkien è la più bella della lingua inglese, la parola creatrice che origina per concatenazione altri mondi. La porta della letteratura che suggerisce la signorina Pomeroy, insegnante che tenta di rovesciare l’anfora della bellezza, ricca della forza delle parole, sola proprietà dell’uomo. Non parole-gomme con cui cancellare le storture della vita, ma parole-matite per segnalarle, per renderle evidenti.
 
“Sei mai stato ipnotizzato?”, chiede la psicologa a Donnie. “No” è la sua risposta; la realtà è che Donnie sembra sempre sotto ipnosi. La sua riscrittura del mondo è ipnotica, ed è fonte di sofferenza. Egli sa che per cambiare ci vuole radicalità, rottura. E il suo tortuoso districarsi fra la gincana di segni lo porta a scoprire il varco che cambia ogni cosa, lo porta al momento catartico in cui rinuncia a Gretchen e ammazza Frank, consapevole che Donnie Darko è già scheletro. Poi il motore dell’aereo cade nella sua stanza come un gigantesco proiettile che viaggia nel tempo. E uccide il tempo. E uccide lui. Ma così Donnie Darko salva il mondo, illuminandolo con l’oscurità.
 
Il compiersi del sacrificio finale che dopo ventotto giorni completa l’opera e ricostituisce il tempo. Donnie Darko muore e con lui il coniglio Frank. Ma tutti gli altri possono cominciare a vivere di nuovo, cancellati i cattivi ricordi e pronti a porsi nuove domande. E noi, nella penombra della nostra sala abbiamo partecipato della visione di Donnie Darko, aderito al suo progetto di riflessione di un mondo piatto che, senza la forza distopica degli interrogativi, rischiava di collassare. 
 
Nelle foto, dall'alto in basso: la locandina del film, due fotogrammi e il regista Richard Kelly.
"Donnie Darko", film del 2011 scritto e diretto da Richard Kelly, con Jake Gyllenhaal, Drew Barrymore, Patrick Swayze, Jena Malone, Maggie Gyllehaal, durata 113 minuti.
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