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14 Gennaio 2015, 07.24

Quaderni di Cinema

«American sniper»

di Nicola 'nimi' Cargnoni
Nelle sale l’ultimo, discusso film di Clint Eastwood, la storia del cecchino che fu quattro volte in missione in Iraq e che ha ucciso dai 160 ai 250 nemici, interpretato da Bradley Cooper

Qual è la differenza tra una bambina nigeriana imbottita di esplosivo, mandata a morire in un mercato affollato, e un bambino iracheno che viene ucciso da un americano prima che possa lanciare una granata?
Entrambi sono fatti di cronaca, che sono successi e sono possibili; la differenza sta nella motivazione della loro morte: l’una per mietere vittime, l’altro per evitare che avvenga una strage.

L’incipit di «American sniper» è folgorante e rivelatore, è un avvio al cardiopalma e mette subito in chiaro l’intento che animerà le due ore successive: l’inquadratura è in soggettiva e lo spettatore vede attraverso il mirino del cecchino.
Punti di vista, dunque. E la soggettiva non è necessariamente il punto di vista del regista, ma può essere quello del protagonista che sta osservando una madre che consegna una granata al suo bimbetto di circa otto anni.
La granata è destinata a un convoglio di statunitensi che stanno sopraggiungendo.

In pochi fotogrammi, quindi, Eastwood mette in campo più elementi, chiarisce subito che il film sarà sviluppato sul punto di vista di Chris Kyle, pone una distanza clamorosa tra la cultura occidentale e il fondamentalismo islamico, capace di mandare al macello anche i bambini, e mette in evidenza la condizione del cecchino, costretto a dover decidere in pochi attimi, pedina di quell’eterna battaglia tra il bene e il male che si gioca sulla scacchiera del Cinema fin dai suoi albori.

Per rispondere, quindi, ad alcune delle critiche che sono state mosse nei confronti dell’ultimo lavoro di Eastwood, occorre farsi una domanda: è davvero un film di propaganda repubblicana? È un film carico di retorica? È, come sostiene qualcuno, addirittura un film fascista?

Partiamo dal presupposto che Eastwood è, sì, un regista che si basa su un metodo piuttosto classico di fare film, ma non si presta a interpretazioni così banali.
Ricordiamoci che, solo negli ultimi anni, ha diretto un film su una donna pugile («Million dollar baby»), un paio di film di guerra dal tono non proprio epico-eroico (soprattutto «Lettere da Iwo Jima»), la storia di un rude e riservato conservatore di provincia che si avvicina al mondo dei suoi giovani (e stranieri) vicini di casa («Gran Torino»), senza dimenticare i lavori sulla vita di Mandela («Invictus») e sulle vicende del fondatore dell’FBI, denunciandone l’autodistruttiva follia («J. Edgar»).

Se ne deduce che Eastwood non è così incline al ferreo conservatorismo repubblicano
che gli viene attribuito; una scena di «American sniper» che può aiutare in questo senso è proprio quella dell’addestramento dei «Navy Seals», il corpo speciale in cui Kyle si arruola, in cui sembra che Eastwood faccia la parodia delle ferree e allucinanti sequenze del memorabile «Full metal jacket».
Il “j’accuse” di Kubrick, che fotografa la follia della guerra disumanizzandola e privandola di linfa vitale fin dall’addestramento del sergente Hartman, viene ironicamente ribaltato in «American sniper», dove un paio di battute dei soldati stemperano la tensione e fanno sorridere lo spettatore, ma mettendolo in guardia sul fatto che quel momento è solo una porticina aperta sull’inferno.

La realtà è che dal film si evince in maniera marchiana la visione che gli americani hanno della Patria e della Guerra, una visione che non rientra appieno nella nostra cultura e che, quindi, per noi potrebbe sembrare fortemente retorica o ai limiti dell’assurdo.
Questo è un elemento che va tenuto assolutamente in considerazione per la valutazione complessiva del film.

Il film si basa sulla reale autobiografia di Chris Kyle, classe ’74, che decide di entrare nei «Navy seals».
Chris è un uomo votato alla guerra: lui la sente, la vive, la incarna. Ma sa benissimo a quale compito è chiamato, non è mosso da esaltazione o da cieca volontà distruttiva.
Parte per l’Iraq subito dopo il matrimonio e, a cavallo delle sue quattro missioni, mette al mondo due figli. Per Chris la guerra non è soltanto una chiamata alle armi, ma è il suo modo di assicurare un futuro ai figli; il lavoro di Eastwood non si limita a far emergere la follia della guerra in sé, ma vuole mostrare l’intima convinzione che muove i soldati americani nella loro missione.

Kyle è in Iraq e, intanto, negli Stati Uniti la vita va avanti,
quasi in maniera indifferente nei confronti dei ragazzi chiamati a sgominare le bande di al-Qaeda.
Chris combatte, sente il richiamo ancestrale di una lotta alla quale sente di partecipare dalla parte del bene.
Nella sua esperienza in Iraq ingaggia una “guerra a distanza” con Mustafa, il suo perfetto antagonista, un infallibile cecchino siriano al soldo di al-Zarqawi.

Molte delle inquadrature sono in soggettiva;
lo spettatore è scaraventato sul campo di battaglia di una tremenda guerra urbana vedendo attraverso i mirini dei fucili o tramite gli occhi dei protagonisti: anche in campo aperto si ha la percezione di una intensa claustrofobia, si avverte la sensazione di prigionia, sembra di essere intrappolati nelle imboscate a cui sono soggetti i marines e i seals.
Il conflitto in Iraq si rivela così un cosmo di micro-mondi che sono le tante piccole guerre che si combattono tra i vicoli delle città Irachene. Chris incarna perfettamente l’idea di piccola storia nella grande storia; la sua guerra a distanza con Mustafa diventa una vera e propria missione nella missione e tutta la concentrazione del protagonista è impegnata sulla difesa della propria “squadra”.

Quando è a casa in licenza Chris non fa altro che pensare al campo di battaglia; per Eastwood sarebbe stato troppo semplice parlare di stress post traumatico.
No, il buon Clint ci offre di più: ci mostra la metamorfosi quasi animalesca di un uomo che sente il richiamo della guerra, un progressivo e morboso attaccamento al suo ruolo di seminatore di morte. Non è esaltazione, non è nemmeno vanagloria (quella che Chris rifugge quando i reduci lo incontrano e lo vogliono ringraziare), ma è una vera e propria Fede nel suo compito, una vocazione a raggiungere l’agognato e personale obiettivo.

Una volta definitivamente a casa Chris non sarà turbato dalle centinaia di nemici uccisi (MAI civili o innocenti), ma il suo rammarico sarà quello di non essere riuscito a salvare tutti i suoi compagni.
In Chris è vivo l’insegnamento del padre, che riguarda la presenza al mondo di tre tipi di animali: quelli che nascono per essere pecore, i lupi che nascono per dare loro la caccia e il terzo tipo, molto raro, che è il cane da pastore, incaricato di tenere a bada i lupi e difendere il gregge. Questo discorso paternalistico si può trasporre, in via del tutto subliminale, in quello che per Chris è il ruolo degli Stati Uniti nella guerra che sta combattendo.

È così, quindi, che una volta ottenuto il congedo si renderà conto che fuori dal suo micro-mondo ci sono stati in realtà tantissimi altri piccoli mondi fatti di stragi, morti, feriti e mutilati.
V’è una rivelazione dell’orrore, di conradiana memoria, che mette a nudo il cuore di tenebra di quell’America che riaccoglie nel suo grembo i suoi figli mandati al macello in anni di faticosissima guerra contro al-Qaeda, là dove anche “Chris the Legend” non è riuscito a proteggere tutti come desiderava.
 
È un film di guerra che si inserisce in un nutrito filone di pellicole, anche recenti, e che ha il merito di essere girato molto bene.
Alcune perplessità possono sorgere in chi è più attento, come per esempio Chris che si sposa con una “piattissima” Taya, parte subito per la prima missione e dopo tre settimane la moglie sembra avere il pancione di una donna al quarto mese di gravidanza.
Pecche perdonabili, dato che si sta parlando di un film di guerra che tiene lo spettatore con gli occhi incollati allo schermo e che mette in scena gli scontri a fuoco in maniera avvincente, ma non così tanto da esagerare e da scadere in un poco credibile splatter.

È, in definitiva, un film impregnato di “cultura americana della guerra”, la stessa a cui (volenti/nolenti) dobbiamo dire grazie per essere sul lato soleggiato del mondo. E no, non è un film “fascista” o che inneggia all’esaltazione da propaganda repubblicana o guerrafondaia; è un’opera su come gli Americani affrontano la guerra, sul loro modo di concepire la difesa della libertà, sulla smania di essere i custodi e i protettori della “Land of the free”, su un metodo così nettamente opposto al fondamentalismo islamico da correre il rischio di sembrare molto simile ad esso.

Quello di Eastwood è un film molto americano.
Attenzione, non è una “americanata”, ma è un film americano nel senso più pieno e più ampio del termine: basato su un impianto cinematografico classicheggiante, si fa portatore di quegli ideali e di quei valori di cui gli statunitensi vanno enormemente fieri.

Il rischio di bollarlo come “americanata” è molto alto
.
Per intenderci, è un film americano nella stessa misura in cui gli statunitensi riempiono uno stadio di ottanta-novantamila persone per il funerale di un loro soldato, rivelando una comunanza e una riconoscenza che noi, popolo storicamente ingrato nei confronti dei propri combattenti e incapace di portare a casa due soldati dopo anni di assurda prigionia in India, non riusciamo proprio a immaginare, elaborare e metabolizzare, cadendo nella stupida trappola di puntare il dito e accusare Eastwood usando parole come «americanata, fascismo, retorica».

Promossa la regia, buona la sceneggiatura, ottima la fotografia, monumentale Bradley Cooper, alta la tensione, nessun rimpianto per i soldi spesi: ****.

Nicola ‘nimi’ Cargnoni

In uscita questa settimana (da segnalare): Hungry hearts, La teoria del tutto.
Già nelle sale (da segnalare): Neve, Pride, Mommy, Melbourne, Viviane, Jimmy’s hall, Gone girl, St. Vincent, American sniper, The imitation game.

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