Partendo da una citazione del «Piccolo Principe» (I grandi non capiscono niente e i bambini si stancano di spiegargli tutto ogni volta) il film assume fin da subito l’intento didascalico e in un certo senso moralistico che porterà avanti per tutta la durata.
Walter Veltroni è alla sua seconda esperienza di regista, dopo l’apprezzabilissimo esordio con il documentario «Quando c’era Berlinguer», dove gettava uno sguardo malinconico e indagatore sul passato di quella sinistra che ora vorrebbe ritrovarsi nei valori di un’infanzia che è ancora presa a modello di purezza e innocenza, a dispetto del buon Golding e del suo «Signore delle mosche».
Partendo da un ragazzino che per la prima volta nella sua vita vede il mare, Veltroni inizia il suo film con una serie di immagini estratte da film dove i protagonisti sono bambini e ragazzini; spicca l’assenza di un caposaldo del cinema come «Zero in condotta», dove i piccoli protagonisti sono veri e propri eversori, allegri ribelli e freschi giullari della società reazionaria dove sono incastrati: chi più dei bambini di Jean Vigo può rappresentare l’idea di cambiamento e di rivoluzione culturale tanto anelata dal buon Veltroni?
Occorre mettere in chiaro, fin da subito, lo stridente contrasto tra questo lavoro di Veltroni e la grande quantità di documentari girati e prodotti in Italia negli ultimi anni: quest’ultimi hanno reso un certo lustro al nostro cinema, diventando il prodotto di punta del momento, il vero fiore all’occhiello del cinema italiano.
«I bambini sanno» è quanto di più lontano ci possa essere dai concetti di originalità e innovazione, perché si tratta di un lavoro diviso in capitoli, ognuno dei quali dedicati a un preciso tema (famiglia, amore, Dio, omosessualità, integrazione) e dove i bambini, seduti nelle loro camerette, rispondono alle domande del regista.
Il problema di «I bambini sanno» è proprio la sua impostazione perfetta, schematica e simmetrica, in ogni sua fase: dalla scelta del cast fino al montaggio.
I bambini intervistati sono una quarantina, tutti in un’età che si aggira attorno ai dieci anni. E ognuno di loro è portatore di situazioni e di storie che non sono state scelte a caso.
C’è la musulmana che parla di dialogo con altre religioni, c’è il rom che viene preso in giro a scuola, c’è la figlia di due donne lesbiche, c’è il figlio di un padre che ha avuto altri sei figli con tre donne diverse, ci sono i genietti, ci sono i casi umani, ci sono tanti immigrati e troppi (ma, invero, non è una forzatura) figli di coppie separate o divorziate.
In realtà ciò che emerge è un grande disagio, più che la speranza che forse era nei piani di Veltroni.
A dispetto dei colori vivaci e accesi, delle battute che fanno sorridere e del senso di sicurezza che il regista voleva trasmettere, ciò che colpisce lo spettatore attento è soprattutto l’urgenza di mettere in salvo i piccoli intervistati. Perché ognuno di loro, che si tratti del piccolo genio o del filippino costretto a vivere in un monolocale, dimostra una maturità che noi, alla loro età, onestamente non avevamo e lancia una silente accusa nei confronti di chi ha distrutto il futuro non solo della generazione degli intervistati, ma anche le successive.
Ne consegue che Veltroni, cercando di farci vedere come i bambini siano capaci di accettare il diverso e di come parlino con naturalezza dell’omosessualità, in realtà ci mette involontariamente di fronte a uno specchio, per interrogarci su quando questi bambini saranno corrotti dall’ambiente in cui stanno crescendo.
Perché non è una questione di “se”, ma è una questione di “quando” succederà.
Del resto il film non è necessariamente da leggere in chiave negativa: ci si può accontentare di restare in superficie, di sorridere per alcune argute osservazioni, di rammaricarsi per altre, di riflettere su quali siano i valori della famiglia oggi nella nostra società.
Si sorride, si pensa e si annuisce spesso, perché i bambini sono più cinici che innocenti, perché i bambini dicono ciò che i grandi trattengono, soprattutto quella sinistra (sfacciatamente) politicamente corretta da cui deriva lo stesso regista.
Dei bambini sappiamo poco, se non le risposte alle domande, che sono più o meno le stesse per ognuno di loro, imbeccate dalla voce fuoricampo del regista.
Vi sono alcuni inserti, così didascalici da risultare quasi inutili, vi sono le storie dei bambini che potrebbero trovare empatia nello spettatore se solo non emergesse in continuazione la sensazione che il regista voglia dipingere un mondo che non c’è, o comunque un mondo diverso da come è in realtà.
Gratifica sapere che i bambini sanno essere razionali e riflessivi, che parlano di matematica, letteratura e teatro, che suonano le canzoni di Hendrix, Joplin e Morrison con la chitarra; potrebbe essere persino rassicurante, se solo questo non fosse distante anni luce dalla realtà, così come lo è la ragazzina musulmana che (bontà sua) afferma che il velo non è una costrizione.
Lungi da me rievocare i bambini di «I 400 colpi», «Ladri di biciclette», «I bambini ci guardano» o «Zero in condotta», ma mi piacerebbe vedere un film con le stesse persone intervistate fra dieci anni.
Valutazione: **½.
Nicola ‘nimi’ Cargnoni
In uscita giovedì 7 maggio (da segnalare): Leviathan, Forza Maggiore.
Già nelle sale (da segnalare): Child 44, Samba, Road 47, Short skin, Mia madre, Figlio di nessuno, White God, Wild, Lettere di uno sconosciuto.
Per conoscere la programmazione della provincia:
1. Andare su http://www.mymovies.it/cinema/brescia/
2. Appare la lista dei film presenti in città e provincia.
3. Per ogni film è segnalato il paese o il cinema in cui lo si può trovare.