Dopo aver interpretato il tenente Aldo Raine in «Bastardi senza gloria», Brad Pitt torna nei panni di un americano che ama ammazzare i nazisti.
Stavolta lo fa in un contesto più serio e credibile, un film di guerra che ricorda molto quelli di vecchio stampo, dove la fisicità e il realismo della condizione umana si incontrano con il cameratismo e il machismo corporale dei protagonisti. «Fury» arriva finalmente nelle sale dopo vari ritardi e rinvii che si protraggono da qualche mese.
Brad Pitt interpreta il sergente Joe “Wardaddy” Collier che è a capo dell’equipaggio di un carro armato cingolato Sherman, che ha il nome di battaglia Fury. A lavorare con Pitt c’è un cast di nomi importanti, a partire da Shia LaBoeuf e Michael Peña, che insieme ad altri sono impegnati a incarnare le differenti tipologie di umanità che componevano, nel 1945 come oggi, l’esercito americano: si va dall’ispanico al bifolco del sud, passando per il giovane dattilografo di città o per il w.a.s.p. che recita la bibbia poco prima di sparare col cannone del tank.
Siamo in Germania ed è l’aprile del 1945, nel momento in cui i tedeschi portano avanti l’ultima, strenua, estenuante e massacrante resistenza, rifiutando per principio qualsiasi ipotesi di resa; siamo su un fronte interno, dunque, e gli americani si trovano a combattere una guerra sanguinosa, dove il nemico è ovunque e, soprattutto, è chiunque, in zone sconosciute e piene di insidie.
Hitler ha dichiarato la guerra totale, chiamando ogni cittadino, compresi bambini e donne, a combattere col nemico.
È in questa cornice che si avvicenda la storia di Norman Ellison, dattilografo dell’esercito americano che viene erroneamente (ma nemmeno troppo) mandato a rimpiazzare un elemento del Fury morto da poco.
Si può asserire, fin da subito, che «Fury» si ritaglia di diritto un posto nel genere del film bellico, nonostante la concorrenza sia nutrita e i parallelismi rischino di sprecarsi.
Non limitandosi agli ultimi, blasonati film di Kathryn Bigelow e Clint Eastwood, «Fury» unisce il violento realismo di «Salvate il soldato Ryan» (Spielberg, 1998) con le claustrofobiche ambientazioni di «Lebanon» (Maoz, 2009) che racconta della guerra in Libano del 1982, vista dall’interno di un tank israeliano.
Anche nel film di David Ayer si vivono molte situazioni ambientate nell’interno del Fury, facendo risaltare la reazione dei soldati che si contrappone all’azione dell’esterno. Mentre fuori si svolge - e si evolve - la grande Storia dell’ultima guerra dal respiro epico, all’interno del Fury si vivono tante piccole storie, ricche dei loro particolarismi messi in risalto da una cinepresa che presta molta attenzione al dettaglio.
Ayer è bravo a restituirci le dinamiche interpersonali che intercorrono tra i cinque membri dell’equipaggio, a volte peccando di enfasi sul tratteggio dei personaggi.
Ma Norman vive il più classico e tragico dei romanzi di formazione, con un Pitt-Collier nei panni dell’ambiguo padre putativo; ma è la guerra e non esistono metodi creanzati per insegnare a un ventenne, puro e immacolato, come si uccide un’altra persona.
Sono proprio quel cameratismo e quell’affiatamento, necessari nei teatri bellici, che fanno da collante allo strano equipaggio, con un capo, il sergente Collier, capace di guadagnarsi la stima, il rispetto e la fedeltà incondizionata dei suoi uomini.
Le scene di battaglia non risparmiano nulla allo spettatore.
Tra corpi smembrati e semi-sepolti dal fango, tra esplosioni di bombe al fosforo e le combustioni che fanno morire atrocemente i soldati tedeschi, il film di Ayer non è agiografico e non vuole nemmeno mitizzare la figura degli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale.
Anzi, in un certo senso restituisce dignità a quei tedeschi che non si sono mai arresi e a quei nazisti che, fondamentalmente, sono riusciti a incutere timore fino all’ultimo momento.
La scelta di ambientare il film con (e dentro a) uno Sherman è dettata anche dal fatto che, nonostante l’enorme potenziale bellico statunitense, il reparto dei carri armati era l’unico dove gli Stati Uniti fossero inferiori ai tedeschi, che disponevano degli impressionanti Panzer e degli Elefant; tutte queste macchine sono ben riprodotte in fase filmica, con una nota di merito per le manovre e le tattiche seguite dai rispettivi schieramenti.
È interessante il rapporto che si instaura fin da subito tra il durissimo sergente Joe Collier e l’inetto Norman, che non ha mai imbracciato un fucile e che non vorrebbe mai salire su quel carro armato.
«Questa sarà la tua casa»: con questa frase Collier accoglie il giovane soldato dattilografo, e dopo alcuni momenti di pura “cattiveria pedagogica” Norman capisce subito che deve farsi coraggio e tenere alta la guardia per poter sopportare e affrontare la guerra all’interno dello Sherman Fury.
Ayer non è nuovo a questo genere di dualismo tra un veterano e una recluta, infatti è lo sceneggiatore dell’indimenticabile «Training day», un piccolo capolavoro del genere azione-poliziesco dove Ethan Hawke interpreta un giovane poliziotto che per un giorno deve fare da partner all’esperto Denzel Washington.
La regia di Ayer è precisa e dettagliata, con un’attenzione quasi maniacale dei dettagli: ferite, manici di pistola decorati, primi piani e inquadrature in soggettiva dall’interno del carro armato, che rendono ancora più claustrofobico e teso tutto l’impianto narrativo. In questo intreccio, l’azione bellica è impressionante e a essa si contrappongono dialoghi che strutturano in maniera solida il gioco delle parti, restituendo allo schermo un quadro ben delineato dei personaggi.
Come già accennato, alcuni di questi tratteggi sono, effettivamente, un po’ troppo rimarcati, ma è anche vero che l’intento di Ayer è quello di definire le personalità dei cinque uomini del Fury, e di definirle nel contesto esasperante del conflitto bellico. Quindi l’eroismo si mescola a un’esaltazione che è tale solo per non farsi sopraffare dalla paura, mentre gli eccessi, dovuti ai festeggiamenti dopo la conquista di una città, sono lo specchio e lo sfogo delle frustrazioni e degli istinti animaleschi covati all’interno del Fury.
Ma l’enfasi non è mai troppa, anche perché il film segue in maniera coerente e logica il filo della tragedia greca, inseguendo l’ineluttabilità delle cinque piccole storie che si avvicendano nella cornice della Grande Storia.
«Fury» è un film tecnicamente perfetto, costato ottanta milioni di dollari, che contribuisce a fare di Hollywood un luogo da cui ancora escono dei bei film.
L’intento è quello di incassare, sicuramente, ma questo vale per ogni lavoro di ogni regista; ma Ayer non si accontenta di incassare in maniera facile, non ha diretto un film scorretto, ruffiano e ricattatorio.
Ha (ri)messo in discussione il concetto del “film di guerra”, tratteggiando la storia di cinque anti-eroi che si sporcano l’anima per poterla riportare a casa.
La guerra, del resto, è questa, e «Fury» non è mai banale, è ricco di colpi di scena e alcuni suoi personaggi non agiscono mai come lo spettatore si aspetterebbe.
Valutazione: ***½.
Nicola ‘nimi’ Cargnoni
In uscita giovedì 11 giugno (da segnalare): Vulcano, La vita oscena, Io Arlecchino.
Già nelle sale (da segnalare): Eisenstein in Messico, È arrivata mia figlia, Cinema komunisto, Il regno dei sogni e della follia, Louisiana, The tribe, Fury, Youth, Il Racconto dei Racconti, Calvario, Nomi e cognomi, Leviathan, Forza Maggiore, Child 44, Samba.
Per conoscere la programmazione della provincia:
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