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30 Ottobre 2014, 07.42

Quaderni di Cinema

Boyhood: ovvero quando si pecca di eccesso di banalità

di Nicola Nimi Cargnoni
Linklater sottopone il cast e il pubblico a un immane sforzo di resistenza

C’era una volta Linklater, quello del bellissimo progetto partito nel 1995 con «Prima dell’alba» e finito nel 2013 con «Before midnight», dopo aver attraversato il 2004 con «Prima del tramonto».
La trilogia della storia d’amore tra i due protagonisti ha coperto circa 20 anni di vita, dove lo spettatore è invecchiato insieme agli attori, e quindi insieme ai personaggi.

Il Linklater di oggi, invece, giunge alla fine di un lavoro iniziato 12 anni fa; l’idea di partenza è oggettivamente interessante: fissare in un quadro storico-sociale la vita dei protagonisti, usando gli stessi attori dal 2002 al 2014 e compiendo pochi giorni di riprese all’anno.
Lo scopo è quello di sottoporre allo spettatore l’assoluta normalità della boyhood (l’infanzia) del protagonista, facendolo assistere ai riti di passaggio di un qualunque adolescente che vive nella provincia americana.

Pertanto lo spettatore, che non si crea aspettative, più che altro nutre curiosità per la crescita psicologica del personaggio.
Ma tale progetto potrebbe avere senso se realizzato in chiave documentaristica (un po’ come l’operazione che Amos Gitai compie con i tre film sulla casa di Gerusalemme, girati nell’arco di 25 anni); Linklater invece opera sul piano della finzione.
Ellar Coltrane non interpreta sé stesso, ma Mason, che all’inizio della pellicola ha 8 anni.

E qui entra in gioco la terribile spirale di normalità che ha trascinato la pellicola in un baratro infinito: padre irresponsabile e madre stressata divorziano, Mason cambia casa con la sorella e la madre.
Nuovo matrimonio della madre, il marito ha altri figli, la famiglia si allarga; altro divorzio. Altro trasloco.
Altro matrimonio, altro marito che denuncia una spiccata capacità della madre (per altro sempre più insopportabile) a scegliere gli uomini peggiori in circolazione; altro divorzio. Altro trasloco.

Un groviglio di cliché, di stereotipi
, di terremoti sociali e sentimentali che sembrano usciti da un serial televisivo; una madre liberamente tratta dalle Casalinghe di disperata memoria, il cui unico slancio è rappresentato dall’esortazione che lei fa a un giardiniere messicano, suggerendogli di studiare ai corsi serali; un eccesso di normalità che rasenta la banalità, reso poco credibile dai traslochi e matrimoni che sono troppi anche per una società come quella americana.

In tutto questo, Mason e sorella continuano a frequentare il padre naturale, che da “irresponsabile e figo con la macchina sportiva” diventa “responsabile e per nulla figo con un minivan”; già, perché anche il padre cresce, compiendo i riti di passaggio che dovrebbero segnare un altro passo nella normalità.
Sullo sfondo, stando alla sinossi ufficiale, dovrebbe esserci “la storia di un’America che cambia”, ma gli unici elementi sono alcune immagini della guerra in Iraq a inizio film e alcuni cartelli di propaganda pro-Obama a metà film.
E il nonno che regala un fucile per il quindicesimo compleanno, retorica di un’America che invece non cambia mai.

I vari tagli ai capelli, ora lunghi, ora corti, ora spettinati, sono gli unici cambiamenti che si colgono di un personaggio la cui crescita psicologica non è ben delineata, non è mostrata, ma è assorbita dal magma di scene scompaginate, della durata di pochi minuti (ora il bullismo, ora lo sguardo della compagna di banco), che sembrano avere l’unico scopo di mostrarci i brufoli che crescono sul viso di Mason insieme alla prima peluria.

Fino a quando ci ritroviamo il Mason ventenne, prossimo all’ingresso al College e quindi alle prese con i grandi problemi della vita, risolti con dialoghi al limite della banalità, con parole già sentite, con scene già viste.
Un film che non aggiunge nulla a quanto già visto fino a oggi, se non la trovata geniale di una ellissi temporale all’interno della trama, dove le 2 ore e 45 minuti (sic!) riassumono i 12 anni di vita (finta) del protagonista e scandiscono in maniera naturale la crescita degli attori (e quindi dei personaggi) in uno sforzo registico apprezzabile, ma che si perde totalmente nel racconto.

L’impressione che si ha, alla fine del film, è quella di una palese stanchezza che caratterizza il lavoro del regista che era probabilmente partito con i migliori auspici ed entusiasmi, ma che si è reso conto che non c’è nulla di stimolante nel filmare “la normalità”.

Mi rendo conto che la mia è una voce isolata,
perché ho avuto modo di leggere varie recensioni entusiastiche.
Da qualche parte ho letto che è un film «onesto, proprio nella sua rivelata identità assolutamente borghese. Come è il protagonista e la maggior parte del pubblico»: ecco, io credo che sia un film a modo suo tranquillizzante, che sicuramente può piacere a chi vive una vita priva di slanci e quindi è bisognoso di usare lo schermo cinematografico come uno specchio.

Io, personalmente, della normalità non so che farmene. Soprattutto al cinema: *½.

In uscita questa settimana
(da segnalare): La spia, La danza della realtà, Last summer, Pelo malo.

Già nelle sale (da segnalare): Boyhood, Il sale della terra, The judge, Buoni a nulla, Io sto con la sposa, Winter sleep, Class enemy, Amoreodio, Joe, Il giovane favoloso, Piccole crepe grossi guai.

Nicola Nimi Cargnoni


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