Religiosità e corporalità, unite dal filo rosso del sadismo schiavista, in questo film di un sorprendente Steve McQueen
Torna al cinema il sorprendente regista Steve McQueen, che dopo alcuni importanti cortometraggi ha esordito nel 2008 con «Hunger», un lungometraggio sulle condizioni dei detenuti politici nell’Irlanda del nord, e nel 2011 ha stupito gli appassionati con il capolavoro «Shame».
Con questi lavori il regista ha destato l’attenzione dei cinefili, divenendo fin da subito uno dei cineasti più amati del circuito del cinema d’autore. Il “club dei cinefili”, si sa, tende a essere particolarmente geloso dei propri autori; ma credo sia il caso di non farsi condizionare dai fin troppi pregiudizi che hanno accompagnato l’uscita di «12 anni schiavo».
Steve McQueen strizza l’occhio a Hollywood, è vero, ma lo fa realizzando un film che probabilmente allarga il target di spettatori a cui invece erano destinati i primi due lavori.
Ma è necessariamente un male? Il regista non realizza un film commerciale, infatti mantiene i tratti peculiari della sua precedente produzione: non c’è mai nulla di scontato, di sottinteso o in sospeso, non lascia nulla all’immaginazione.
L’inquadratura è sempre cruda, reale, con una grandissima attenzione alla corporalità, che è il tratto distintivo del promettente regista.
In una narrazione che si alterna tra (molto) presente e (qualche) flashback, McQueen concede largo spazio al sadismo e alla follia della società schiavista degli Stati Uniti di metà Ottocento.
In una serie di inquadrature, per esempio, mostra diversi schiavi negri che portano sui corpi e sui visi le cicatrici e i segni della violenza; poi a un certo appunto l’inquadratura ferma su un anziano, nero, barba e capelli brizzolati, che sembra trattenere un sorriso bonario.
Il viso è pulito, lo spettatore (in forza di quel “montaggio per attrazioni” teorizzato da Eisenstein) è portato a cercare gli sfregi.
Poi si rende conto che in realtà all’uomo manca una mano, è monco, ma ormai l’inquadratura è cambiata: se il viso è esente da cicatrici, lo stesso non si può dire del corpo. L’idea di mutilazione fisica accompagna quella della libertà.
Il film è interamente ambientato in esterni; eppure non si scorge mai la presenza di uno spazio aperto, c’è sempre qualcosa che delimita lo spazio visivo, il grandangolo è mutilato come i personaggi del film; da questo traspare il senso di prigionia e di soffocamento che il protagonista vive.
Là dove c’è un campo di cotone, v’è uno schiavista armato di frusta che ‘taglia’ l’orizzonte. I campi di canna da zucchero non sono mai inquadrati nella loro immensità, ma sempre dal basso, rendendo così opprimente anche il più arioso degli ambienti esterni.
Come al solito Fassbender (vero e proprio pigmalione di McQueen) si lascia andare a una interpretazione straordinaria.
Stupefacente il protagonista (un sorprendente Chiwetel Ejiofor); buone le prove dei comprimari, da Chiwetel Ejiofor (War Horse, Espiazione, la serie TV Sherlock) fino a Paul Dano (l’odioso sacerdote della chiesa della Terza rivelazione in Il petroliere), compreso un Brad Pitt che fa una parte minore, ma che ha un ruolo chiave nella trama.
La massiccia presenza di canti spiritual arricchisce questo film, mettendo a confronto la differente religiosità dei protagonisti: da un lato i padroni, che la domenica leggono la bibbia ai propri schiavi, ma che si lasciano andare a frustate, punizioni, inaudite violenze e impiccagioni facili.
Dall’altro gli schiavi, che la bibbia non sanno leggerla, ma che esprimono la loro fede in dio (quello della libertà, il dio che lenisce la fatica e il dolore delle ferite) con splendidi e primordiali blues; tra scenografie, costumi e musiche questo film è un gioiello di filologia cinematografica.
Alcune scene sono già da storia del cinema, come per esempio quella della ‘impiccagione’ (chi vedrà, saprà), che lascia lo spettatore in un’angosciata e incredula apnea per tutta la sua durata: un piccolo capolavoro di fotografia e regia, un film nel film.
La valutazione non può essere meno di ****.
Se strizzare l’occhio a Hollywood significa realizzare questi lavori, allora (qualche volta) ben venga.
Ora, però, procuratevi «Hunger» e «Shame» e vedeteveli.
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