Dal 30 gennaio è nelle sale il capolavoro che racconta l’«altra Dallas» di fine anni ’80
L’incipit è uno schiaffo che catapulta subito lo spettatore di fronte alla “bestialità carnale”, che caratterizza un po’ tutte le 2 ore della durata.
Siamo nel Texas dei rodei e dei cowboy, in un’ambientazione tipicamente machista e omofobica; fin dai primi minuti il protagonista apprende di avere l’AIDS e che gli rimane poco tempo da vivere.
Si scaglia contro il medico, in un turbine di insulti, omofobia, violenza e ignoranza.
«Sono un cowboy», è la frase con cui esclude ogni possibilità di poter aver contratto il virus.
Siamo nel 1985 e l’AIDS è una malattia destinata a colpire «solo le checche».
Una regia frenetica ci mette di fronte a quelli che dovrebbero essere gli ultimi 30 giorni di vita del protagonista, che nel frattempo prende coscienza del problema e realizza che il virus si può contrarre anche con rapporti eterosessuali non protetti.
A questo punto è interessante l’evoluzione del personaggio, che a sua volta si trova a doversi scontrare con i pregiudizi e l’ambiente a cui è appartenuto per tutta la sua vita.
Ron (interpretato da un emaciato, pallido e bravissimo Matthew Mcconaughey) non ha nessuno: di lui non vediamo la famiglia, né gli affetti; soltanto gli amici, che lo abbandonano fin da subito, non senza avergli dato della «checca».
La regia è geniale, mai nulla è come sembra; vi sono alcune scene da annali della cinematografia, come quella in cui sembra stia pregando in chiesa o come quella delle farfalle; la sceneggiatura sposa una fotografia dai colori ben definiti, ma tenui, che nelle scene girate all’esterno tendono al verdastro e che calano lo spettatore nell’atmosfera di quegli anni.
L’angoscia e la paura del protagonista emergono vigorosamente, mal celate dalla sua spavalderia e dalla sua violenza, uniche armi di difesa di Ron. Dal momento in cui entra in scena il transessuale Rayon (Jared Leto in totale stato di grazia), il film gode di un’ulteriore impennata di qualità.
Senza svelare ulteriormente la trama, basti dire che la pellicola di Jean-Marc Vallée (regista del capolavoro C.R.A.Z.Y. del 2005) è un viaggio nel mondo dell’AIDS, delle prime sperimentazioni e delle cure clandestine, oltre che un attacco ai metodi delle lobby farmaceutiche.
Ron e Rayon importano illegalmente farmaci ‘non approvati’ dalla Food and drug administration, mentre il regista ‘spalanca’ più finestre su un mondo complesso, variopinto, angosciato e angosciante, abitato per lo più da emarginati. Una società in apnea, che naviga a vista nel mare di ipocrisia, pregiudizi e ignoranza, alimentate dalla paura per le prime epidemie di HIV.
Il ‘club dei compratori di Dallas’ vende soprattutto speranza, contrastando con la logica pragmatica della ricerca scientifica, che vorrebbe non ci fossero queste ‘interferenze’ sulle proprie cavie; per questo Ron e Rayon non godono della simpatia della FDA e del fisco americano.
È l’eterna lotta tra giusto e sbagliato, descritta da una narrazione che si concentra molto sulle dinamiche psicologiche e sentimentali dei protagonisti. La malattia unisce, fortifica e a volte può migliorare chi ne è colpito.
Un vero capolavoro di umanità, un affresco a tinte forti, a tratti crudo e violento, a tratti divertente, a tratti delicato, dolce e sorprendente.
Un film incredibile, che racconta micro-mondi altrettanto incredibili.
Lo spettatore soffre, si immedesima, parteggia, sorride di fronte al crudo cinismo del cowboy Ron, prova sconforto, rabbia e poi si risolleva, speranzoso, fino a commuoversi.
Per ora, insieme a «The butler» e a «Still life», è il più bel film visto nel 2014: valutazione ****½.
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