Il vecchio noce
di Giuseppe Biati

Si avvicina il 25 aprile. Pubblichiamo volentieri questo bel racconto di Giuseppe Biati, uomo di scuola, storico e fine conoscitore dei sentimenti che animano i valsabbini


Presso il  mondo contadino la grande casa, quella di un tempo, costituiva una rappresentazione della vita familiare, con i suoi aspetti più intimi e reconditi, più  nascosti e più inviolabili, più semplici e più comuni che l’umile luogo  offriva, negli affetti e nei dinieghi, nelle sofferenze  e nelle gioie,  nelle abnegazioni e nelle difficoltà.
Resisteva la consueta struttura: la grande cucina, dove tutti abitavano e consumavano; le piccole camere, dove il tepore  permaneva, assieme agli oggetti della sacralità e dell’intimo familiare.

Gli oggetti erano tanti, tutti poveri: da quelli del focolare con pentole, secchi, sgabelli, a quelli del lavello  con piattaie, mestoli, vasi; da quelli dell’angolo di lavoro con filarelli e canocchie a quelli della lavorazione del latte.
Anche i mobili erano di semplice impianto: la “farinera”, centrale nella disposizione strategica di dispensa quotidiana; i letti delle camere alti, come quasi ad arrampicarsi per raggiungere il riposo; gli armadi essenziali per un vestiario della festa e dell’”ogni giorno” che viene.

La tavola, presso la civiltà contadina, era il centro della cucina e, in forma più ampia, della casa.
Con le gambe tornite e un capace cassetto che conteneva tutte le posate era l’appoggio per i mille lavori diurni e serali, femminili e maschili. Di solito in legno d’abete (per i più benestanti, di noce), era coronata da un numero di sedie impagliate congruo alla quantità dei componenti la famiglia.

Sedie di legno, con sedile di paglia intrecciata e schienale di assicelle orizzontali leggermente incurvate,  a seguire la conformazione del dorso.
I bambini, non ancora in grado di stare seduti sulla sedia e di arrivare comodamente al piano della tavola, sedevano sul seggiolone.
Anche il seggiolone aveva il sedile impagliato e, spesso, recava un tondo buco al centro per agevolare il bambino nei suoi bisogni.
Le famiglie più povere costruivano il seggiolone dei piccoli usando pali squadrati e debitamente incastrati. Gli altri lo acquistavano alle fiere o lo facevano costruire dal falegname del paese.

Le porte delle case dei contadini spesso erano senza serrature: si chiudevano con semplici stanghe di legno inserite in due buchi laterali della muratura.
Non mancavano, però, solidi esemplari di serrature in ferro battuto, con chiavi altrettanto belle.
La madia per la farina era il mobile dispensa della casa. Di solito, conteneva, in tre scomparti diversi, la farina bianca, quella gialla e la crusca.
Con la farina bianca la donna di casa preparava quasi quotidianamente su un’asse apposita la pasta per le minestre feriali e i ravioli o “casoncelli” festivi.
Farina gialla, acqua e sale erano gli ingredienti per ottenere la tradizionale polenta, piatto consumato con troppa ripetitività, fino al punto di far dilagare la “pellagra”, la malattia dei poveri.

Nel cortile di casa o “éra” troneggiava, immenso,
con i suoi lunghi e nodosi rami, un antichissimo noce: era la pianta regina del cortile della casa contadina. L’albero, per l’imponenza e la vecchiaia, era qualcosa di più di un simbolo.
Era stimato, per la grossezza del tronco, pluricentenario.
All’ombra dei suoi rami, sul terreno reso completamente nudo dalla capacità inibitoria delle foglie allo sviluppo di altre piante, le buche del gioco a cicche avevano trovato la giusta accoglienza per il gruppetto di vispi ragazzini, fratelli e cugini, tutti in armonica scala numerica che non prevedeva carenza di vuoti.

Ogni anno, nella famiglia patriarcale della corte,
se non era un fratello a trovare il respiro, era un cugino, una cugina. Tutti armoniosamente in scala, come se costituissero il pianoforte delle opportunità.
Su tutto questo mondo agricolo e sociale vigilava il maestoso albero del noce, frondoso custode di tutti i tempi passati.
I suoi frutti costituivano una vitale risorsa nutritiva e, per l’ingente produzione,  un sicuro aiuto alle magre economie curtensi della vicenda contadina del tempo.

Si saliva sulla grandiosa pianta e,
con una lunga ed uniforme pertica, si battevano le noci che venivano raccolte in appositi cesti di vimini.
Dopo la raccolta, avvenivano, sui solai, l’essiccatura e la cernita, perché le migliori venivano vendute ai negozianti e le piccole pronte per l’artigianale spremitura per ricavarne olio.
Allora erano soprattutto i solai i più idonei essiccatoi.  
Le noci sul solaio venivano settimanalmente girate e rigirate con un apposito rastrello e il rumore era tale da sembrare al fragore del tuono. Così, quando durante i temporali scoppiavano i tuoni, si diceva ai bambini impauriti di non temere che ‘era il Signore, in cielo, che rigirava le noci’.

Era un mondo di semplicità connaturata alla frugalità quello contadino, di sani ed inderogabili principi etico-religiosi, non tanto perché impressi dalle evangeliche esortazioni delle prediche domenicali, ma insito in una quotidianità che aveva il carattere, sublime, dell’onesta partecipazione alla implacabile (questa sì) ruota della vita.

A sconquassare questi ritmi rurali ci furono soprattutto le guerre, di indipendenza, la prima guerra mondiale , le guerre coloniali, la seconda mondiale.
Si appoggiavano sulle scelte di pochi con l’assordante rumore dei loro proclami e sulle deferenze di molti, obbligati dalle propugnate e mentite spoglie per la difesa di una patria alla quale loro, i contadini, appartenevano solo numericamente, senza rappresentanza, senza diritti se non quello del sacrificio della loro vita e della loro esistenza: “carne da cannone” di inutili guerre (Benedetto XV definì la prima guerra mondiale una “inutile strage”) e di (in)giustizie sommarie.

Con la seconda guerra mondiale, dopo un ventennio di regime fascista, dove contava solo il potere non disgiunto dalla violenza, il mondo contadino ingrossò le fila di un esercito di cartone, reso forte e possente solo dalle azioni propagandistiche nazionalistiche, che affrontò le diverse campagne belliche intraprese con l’inavvedutezza dell’impreparazione e la sconsiderata sete di conquista dei suoi capi.
Spagna prima, poi Albania, Grecia, Africa, Russia furono solo alcune delle tragiche tappe di  avventati percorsi di tragedia e di morte, nel “sudicio fossato della storia”.

I fatti dell'8 settembre del 1943, con l'armistizio, fecero dell'Italia un Paese allo sbando: con l'illusione della pace, gli italiani si avviavano a un lungo periodo di stenti, di bombardamenti, di rappresaglie e di guerra civile.
La data dell'annuncio dell'armistizio con gli Alleati e della fine dell'alleanza militare con la Germania fu anche la data della dissoluzione dell'esercito italiano e dei primi episodi di Resistenza contro i tedeschi .
E, con la Resistenza, crebbe anche la capacità critica del popolo, quello più dimesso, quello della obbedienza cieca.

I figli del popolo iniziavano ad optare per la renitenza
, per la diserzione, per la riluttanza, per il rifiuto.
Anche nella grande casa contadina, dove i figli abbondavano, come le noci, perché sono benedizione di Dio, le defezioni al fascismo e alle sue manifestazioni erano numerose.
La macchia, il bosco, la montagna accoglievano i diversi pensieri dei giovani figli delle classi più deboli.
Avevano l’innata ritrosia del manifestarsi, timidi e ingarbugliati, ma ferrei nelle decisioni e dipendenti dal labbro di chi dell’intellettualità esercitata sui banchi della scuola alternativa o degli oratori ispirati si ergeva a guida.
Fulgidi erano gli ideali, tali da rapire mente, cuore e intero corpo.

Antonio, il figlio maggiore del contadino, quello cresciuto sotto l’immenso albero del noce, aveva maturato la sua decisione.
Chiamato alle armi nella Repubblica Sociale di Salò, aveva scelto i monti, la latitanza come primo approccio e, man mano, il gruppo dei giovani renitenti aumentava cresceva anche la partecipazione al dibattitto politico, al sogno di un avvenire lontano dalle violenze morali e fisiche di un fascismo rivelatosi in tutta la sua scellerata empietà.

Si doveva lottare per un’Italia libera e giusta.
Ne aveva accennato ai coetanei, ai genitori, ai fratelli che seguivano nella scala cronologica. Il loro doloroso  silenzio, se inizialmente risultava per il giovane un accorato distacco, si era manifestato poi  in un implicito assenso.  

Era sui monti.
La montagna è il luogo dei silenzi primordiali e delle bufere di vento e di neve, delle assolate calure estive, del dilemma e del mito, della roboante dettatura del Decalogo e della serena scansione delle Beatitudini; è il regno della solitudine metafisica che può generare paura, come se fosse la prima pulsione del coraggio.
Era anche il significativo luogo della scelta, della resistenza, del ripudio agli orrori di una società non più riconducibile all’interpretazione fedele e cultuale dell’umanità.
In paese, ormai, tutti sapevano della scelta del giovane renitente.

La rabbia e il livore del podestà si erano scagliati contro la famiglia contadina.
Minacce, ingiunzioni, perquisizioni se avevano la  iniziale finalità di far rientrare il ribelle, avevano poi intrapreso la strada della punizione totale ed esemplare.
“Lo cercheremo, il tuo figliuolo! Lo scoveremo nei nostri rastrellamenti; te lo porteremo a casa!”.
Erano queste le costanti e denigratorie espressioni di sfida rivolte alla famiglia.

Ma, poi, con il passare del tempo, aumentava anche il livore repubblichino, crescevano i toni, le minacce, le intimidazioni.
“Lo cercheremo, il tuo figliuolo! Lo scoveremo con i nostri cani; te lo porteremo, vivo, per fartelo vedere  appeso al ramo più alto del tuo noce!”.
La devastazione dell’animo era entrata nelle fibre del povero padre, che non si dava pace al pensiero: “Appeso, al nostro noce!”.

L’immagine prefigurata aveva raggelato il sangue e tagliato le arterie.
La notte, nel letto, portò, con la sua tetra oscurità, convulsi pensieri di tragicità e di morte.
Si girò, si rigirò, sospirò, risospirò, si raggomitolò, abbandonato dal sonno infedele. Si consultò con la moglie, aggiungendo angustie al dolore e alla premonizione.
Non doveva succedere, fu la sua scelta.

Il mattino giunse felpato e lento come il passo del gatto, ma  gravido di importanti decisioni.
L’accetta, la sega, gli strumenti del taglio erano tutti approntati, vogliosi dell’operazione ultima.
Il primo colpo  partì secco ad intagliare la base del grande fusto; ne seguirono altri, rabbiosi, alternati, cadenzati, energici, furiosi.
Le bianche e lignee schegge, proiettate per ogni dove, impazzivano nell’aria  come lucenti scintille.

L’albero stramazzò a terra con il ferale schianto del cedimento improvviso, come morente da piangere, nella sua possanza antica, inconsapevole partecipe di un tragico e disperato gesto insieme di sofferenza, di ribellione, di amore.  

Giuseppe Biati