Parlare bene l'inglese conviene
di Valerio Corradi

C’era una volta la scuola delle 3 “i” (informatica, impresa, inglese). Molte le riforme tentate, poche le risorse investite. Che fine ha fatto la “i” dell’inglese?


Nell’impianto della scuola delle tre “i”, insieme all’informatica e all’impresa, l’inglese doveva essere uno dei caposaldi di un sistema d’istruzione e formazione innovativo e aperto all’internazionalizzazione.

Di recente la società d’istruzione internazionale EF Education First ha elaborato una graduatoria tra 100 nazioni, in base ai risultati dell’indice di abilità nell’uso della lingua inglese.
Ai primi posti si sono collocati Paesi Bassi, Svezia, Norvegia e Danimarca, agli ultimi Libia, Arabia Saudita e Iraq.

L’Italia è al 36esimo posto, ed è il fanalino di coda dei paesi europei presi in considerazione.
Meglio del Bel Paese fanno, tra gli altri, Grecia, Spagna, Croazia.
Per quel che riguarda l’Italia, la città nella quale si parla di più e meglio l’inglese è Milano che tuttavia è preceduta da ben 36 città, le prime della quali sono del nord Europa.

Una conferma
della sofferenza nell’uso e nell’apprendimento della lingua da parte degli italiani arriva anche dalle discusse prove Invalsi che mostrano che la maggior parte degli studenti di quinta superiore fatica a raggiungere il livello B1 previsto dai programmi.

Sul piano generale è utile ricordare la correlazione tra livello di conoscenza dell’inglese e livello di reddito.
Secondo la Banca mondiale, chi parla un livello d’inglese elevato ha un reddito medio più alto, e nei Paesi dove si conosce meglio l’inglese si innova di più, tanto che la conoscenza di tale lingua è uno dei presupposti per la creazione di ricchezza.

In un quadro sociale ed economico che vede crescere gli scambi con i paesi esteri è fondamentale possedere abilità linguistiche di alto livello.
Per questo, è indispensabile rilanciare gli investimenti nel sistema educativo per l’insegnamento dell’inglese (lingua parlata da 1,5 mld di persone nel mondo), favorendo sempre più scambi formativi con l’estero.

Negli ultimi anni, molti Istituti scolastici
hanno intensificato il proprio impegno per la creazione di opportunità di apprendimento della lingua per i propri studenti anzitutto in ambito curricolare (potenziamento delle ore, creazione di laboratori, introduzione di esperti).
Si sono poi moltiplicate le possibilità di fare esperienze all’estero con progetti di scambio e di confronto con scuole di altri paesi europei.

Da ricordare il programma Erasmus
(European Region Action Scheme for the Mobility of University Students) che dal momento della sua istituzione (fine anni ’80) a oggi è stato seguito da oltre 2 milioni di studenti (in continua crescita) con 33 Paesi coinvolti e oltre 2.200 Università aderenti.

Erasmus (dal 2014 Erasmus+) offre la possibilità a uno studente europeo di formarsi o effettuare un tirocinio in un paese dell’Unione per un periodo che va dai 3 ai 12 mesi.
Il programma è una delle azioni più impegnative promosse dall’Unione Europea e sta avendo il merito di far crescere e migliorare le competenze linguistiche e relazionali di molti giovani europei ma anche di fornire loro occasioni per imparare a convivere con culture diverse.

La situazione di stallo che sta attraversando l’Italia
dovrebbe ulteriormente incentivare percorsi formativi di questo tipo ponendo attenzione alle positive connessioni tra internazionalizzazione della formazione, miglioramento delle competenze linguistiche e valorizzazione dell’accresciuto capitale socio-culturale dei giovani.
Per questo è doveroso chiedere uno sforzo aggiuntivo per sostenere in tal senso i progetti degli Istituti scolastici e per incentivare gli studenti alla mobilità internazionale