Nanni Moretti è sempre meglio di come te lo aspetti
di Nicola 'nimi' Cargnoni

In un racconto circolare e chiuso Moretti racconta del rapporto tra il cinema e la realtà, sullo sfondo di una storia personale che non si limita all’autobiografia


C’è un momento in cui ogni grande regista decide di realizzare un film sul cinema, o un film sul rapporto che egli ha col cinema.
Fin dai tempi di Porter, che nel 1902 realizzò «Lo zio Josh va al cinema», passando poi per «Il disprezzo», «Effetto notte», «8 e ½», «Hugo Cabret», «Holy motors», «Nuovo cinema paradiso», «Il regista di matrimoni» e chissà quanti altri sto dimenticando.

Tecnicamente si chiama metacinema, meno tecnicamente si chiama autocelebrazione.
Che non è sempre un male, soprattutto quando l’autore si chiama Nanni Moretti e qualcosa da dire sul cinema ce l’ha davvero.

Cinema e malattia, cinema è malattia.
Moretti torna sul “luogo del delitto”, ovvero la corsia di un ospedale, il rapporto coi medici, le diagnosi, le cure e le malattie, proprio come nello splendido «Caro diario» di una ventina d’anni fa.
E il ritorno a quegli anni si manifesta anche in una sequenza onirica in cui Margherita Buy percorre Piazza Montecitorio dove si snoda una infinita quanto improbabile coda di persone, tutte in attesa di entrare nella piccola e storica sala Capranichetta per vedere «Il cielo sopra Berlino».

Il cinema è malattia, si diceva. Lo è per Margherita (Moretti mantiene spesso l’omonimia tra personaggio e attore) che è impegnata nella realizzazione di un film sulla crisi economica attuale, sui licenziamenti, sul passaggio di proprietà di una fabbrica italiana a un industriale americano (John Turturro) che dovrà fare dei tagli al personale.
Ma Margherita è sfiduciata, non ci crede troppo, sembra voler realizzare il film più per dovere morale che per una vera convinzione. Questo si riflette sul modo di lavorare e di vivere, con una malcelata insoddisfazione mista a nevrosi; il rapporto con il divo americano che deve fare l’imprenditore sarà irto di ostacoli, così come quello sentimentale con Vittorio, anche lui attore nel film (di cui nemmeno sappiamo il titolo), in un meccanismo che mette in scena magistralmente la relazione tra il cinema e la realtà, tra gli interpreti e i personaggi, tra i registi e le loro creazioni.

Moretti riprende il Jep Gambardella di «La grande bellezza» (che diceva: «finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c'è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla»), rendendo quel «bla bla bla» molto più credibile e scioccante di quanto non abbia fatto Sorrentino.
A volte i personaggi parlano tra sé o tra di loro, totalmente indifferenti al contesto o a ciò che succede attorno: un espediente che sembra citare la maniera di Woody Allen, anche quando Moretti decide di far parlare Margherita da sola mettendo in scena il suo flusso di coscienza, le sue insicurezze, i suoi dubbi, la stanchezza, la sensazione di essere inadeguata/o, le sue paure e la sua avversione per la retorica.

Vera e propria alter-ego di Nanni Moretti
, la Margherita di «Mia madre» è una regista che però non ricalca i particolari biografici dell’autore romano. Semmai ne mette in scena i pensieri, gli anatemi, l’amore-odio per il proprio lavoro. Moretti non realizzerebbe mai un film come quello che Margherita sta girando, ma sappiamo bene che nella sua carriera ha sempre dato voce a quel bisogno di intervenire sul sociale, di raccontare l’attualità e di renderne partecipi gli spettatori. Ma il limite del cinema è quello di poter mostrare la realtà, senza poter agire direttamente su di essa.
È anche il conflitto interiore che vive il personaggio di John Turturro, il divo americano che deve rappresentare l’imprenditore in una dimensione tutta provinciale del cinema italiano, e questo è uno degli anatemi (più o meno espliciti) lanciati da Moretti in «Mia madre», complice anche una troupe pressapochista e poco preparata contro cui Margherita è costretta a scagliarsi sovente.

Sullo sfondo della vicenda professionale e cinematografica, Margherita vive la sua dimensione personale che è fatta per lo più di solitudine e incertezza e di legami recisi o in bilico.
È un momento difficile della sua vita, complice anche il fatto che la madre è costretta a stare in ospedale per una malattia cardio-respiratoria. Ad accudirla c’è quasi sempre il fratello di Margherita, Giovanni (interpretato da Nanni, Giovanni appunto, Moretti), ingegnere che si è preso un periodo di aspettativa, probabilmente specchio riflesso di quella “pausa di riflessione sul cinema” che Moretti si è concesso proprio con questo film.

Giovanni è pacato, tranquillo, affettuoso e premuroso, ma allo stesso tempo deve aiutare la sorella a metabolizzare il momento, a rendersi conto della malattia degenerativa della madre.
Giusto per smentire quanto detto poche righe prima, la vicenda principale di «Mia madre» è proprio la degenza della mamma Ada (una splendida e incredibile Giulia Lazzarini) e del rapporto di questa con i figli. Ma la malattia e le visite in ospedale sono raccontate sotto una luce intimistica e straniante, così lontana dal chiasso del set su cui lavora Margherita, che sembra voler raccontare un’altra storia, sembra voler tracciare un solco insuperabile tra cinema e realtà, tra dimensione privata e sfera pubblica.

Il personaggio interpretato da Moretti è lontano dal mondo professionale della sorella.
E questo è un paradosso che dà un valore aggiunto al film, proprio perché questa volta Moretti si “tira fuori dal gioco”, mette in scena un personaggio che non si impegna socialmente e civilmente nelle dinamiche della pellicola.
L’unico episodio è quello della sequenza onirica a inizio film, dove Giovanni chiede alla sorella Margherita di «rompere gli schemi», ma allo spettatore resta il dubbio che sia una richiesta che il regista fa a sé stesso, proprio come premessa per questo film che è fortemente “morettiano” nei temi, nei tempi e nei modi.

L’uso della camera che stringe sul primo piano con una musica di archi in sottofondo, con un montaggio che stacca improvvisamente altrove, su altre persone e in altri luoghi, è la cifra stilistica inconfondibile, che rende quello di Moretti un cinema autoriale e autorevole, capace di sottoporre lo spettatore a notevoli sbalzi emotivi e sonore batoste morali, grazie anche a un uso sapiente di flashback, sequenze oniriche e mix di piani temporali che non confondono mai l’occhio di chi guarda.

Qui c’è anche da considerare che la scrittura rasenta la perfezione.
Non c’è un personaggio che non sia scritto bene, complice anche l’ottima prova di tutto, e sottolineo tutto, il cast. Persino la figlia e l’ex marito di Margherita, che occupano una parte marginale, colpiscono al cuore, piacciono, sono efficaci. Margherita Buy è semplicemente strepitosa, vera, quotidiana e sincera, mentre Nanni Moretti traccia il ritratto di un personaggio splendido, parco di parole ma che sa entrare subito in empatia con lo spettatore.

La madre è il personaggio più vivo e più vero del film, nonostante si stia lentamente spegnendo. Ex insegnante di latino al liceo classico (il Liceo “Ennio Quirino Visconti” di Roma), trova la propria dimensione ideale aiutando la nipote nelle versioni di latino.
Ciò che i due figli vivono negli ultimi giorni della madre è qualcosa davvero noto a chi ci è passato.
La consapevolezza di quel che sta accadendo alla madre non nega a Margherita e Giovanni il merito di lasciarle vivere serenamente e dignitosamente gli ultimi giorni; i due figli metabolizzano, sanno, in una logica di “cognizione del dolore” di gaddiana memoria; ma non dicono nulla alla mamma.
La riaccompagnano a casa, ritrovando loro stessi nella dimensione domestica, nell’intimità, proprio come Moretti fa con questo film, anche nella scelta degli abiti da mettere alla defunta, nella pacatezza dei toni, nel pudore con cui si raccontano e si mostrano anche i momenti più drammatici, in un’ottica così vicina a un’austerità quasi dreyerana.

Alla recensione che tenta di essere oggettiva stavolta devo aggiungere qualcosa di personale.
La lotta professionale e personale, che i due protagonisti portano avanti, si accompagna al lento consumarsi della madre.
Il fatto che abbia i giorni contati e che sia una ex insegnante me la rende molto più vicina di quanto non accada normalmente con qualsiasi personaggio cinematografico.
«Per noi era una madre, prima che una professoressa. È entrata nelle nostre vite per renderle migliori» sono le parole che una ex studentessa rivolge a Margherita, prima della scena finale, così controfattuale, sorprendente per la sua semplicità così lontana dalla banalità, totalmente intrisa di poesia e carica di speranza.

È un film strepitoso, dolce, duro, poetico, sinfonico, difficile, sospeso, delicato, pregevole, ben fatto, mai ansioso, per nulla ricattatorio, raffinato e sublime. E sincero. Sincero da far male.
Moretti ci dice che le persone muoiono, ma non ciò che sono state. Muoiono le persone, ma non il cinema.
Titoli di coda. E sperate che non si accendano subito le luci, per darvi il tempo di celare maldestramente le lacrime.

Ora come ora la valutazione è quella che riservo solo ai film della vita: *****.

Nicola ‘nimi’ Cargnoni

In uscita giovedì 16 aprile
(da segnalare): Mia madre, Figlio di nessuno.
Già nelle sale (da segnalare): White god, Wild, Lettere di uno sconosciuto, L’ultimo lupo, Chi è senza colpa, Una nuova amica, Vergine giurata.

Per conoscere la programmazione della provincia:
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