Onirica - Field of dogs
di Nicola Cargnoni

Da oggi, giovedì 17 aprile, è nelle sale italiane il nuovo film di Majewski.
Dal punto di vista estetico è un capolavoro assoluto, un momento in cui il cinema diventa semplicemente ‘arte per l’arte’



L’incipit del film ci catapulta subito nel mondo dei sogni di Adam, un giovane professore universitario che è sopravvissuto a un grave incidente stradale dove la sua fidanzata e il suo migliore amico hanno perso la vita.
È proprio il tema della morte a dominare tutto lo svolgersi della trama, mentre la componente onirica è data dalla vita che continua nell’aldilà, poco importa se è solo frutto dell’immaginazione di Adam.

Majewski torna al cinema dopo lo splendido «I colori della passione», che sviluppava l’espediente del viaggio all’interno di un dipinto di Bruegel; stavolta l’ecclettico regista polacco utilizza la letteratura, servendosi di alcuni canti della Divina Commedia, oltre che di importanti passi tratti da Epitteto, Heidegger e Seneca.

Quello di Majewski è un cinema molto citazionista, oltre che profondamente personale; le vicende del protagonista e la sua difficile situazione vanno in parallelo con le catastrofi che hanno colpito la Polonia nel 2010: le alluvioni dell’inverno e l’aereo precipitato in cui morirono il presidente e altri importanti esponenti politici.

È su questo sfondo che si dipana l’intero filo narrativo, anche se il regista si affida molto a espedienti di tipo citazionista, a simbologie e a situazioni del tutto visionarie, che rischiano di far ‘perdere’ lo spettatore.
A un certo punto è difficile distinguere cosa è sogno e cosa è realtà, e questo è ben rappresentato dalla visita al museo dove Adam incontra un cieco che sta ‘vedendo’ le opere d’arte, servendosi dell’uso delle mani.

Adam ha recuperato la vista dopo averla persa per un certo periodo dopo l’incidente: questo è fondamentale ai fini del film, perché entra in forte contrasto con l’esperienza immaginifica e visiva che Majewski propone.
La paura di non riuscire a godere delle immagini va di pari passo con la paura di non poter più ‘vedere’ i propri sogni, che per Adam sono l’unica via di fuga dalla sua condizione di ‘condannato a vivere’.

«Se non puoi cambiare te stesso, cambia il mondo» è la frase (in realtà ossimorica) che la zia di Adam dice al nipote; i dialoghi con la zia sono tra i momenti più alti del film, in particolare quelli in cui la donna spiega il suo punto di vista sulla morte: «è separazione da ciò che vediamo».
Torna dunque il tema della vista: è vivo solo ciò che vediamo, ciò con cui entriamo in contatto.

I sogni di Adam sono accompagnati da alcuni passi della Commedia dantesca, partendo dall’incipit dell’Inferno fino a un canto del Paradiso, una sorta di crescita spirituale che accompagna le sempre più frequenti dormite del protagonista.
Tanti i tributi che Majewski riserva ai grandi cineasti: gli elementi surreali e la cicatrice sull’occhio di Adam sono un omaggio a Bunuel; la stanza rossa dove Adam incontra la zia, e i dialoghi che instaura con ella, sono chiari riferimenti al Bergman a colori; ma soprattutto il tributo a Tarkowski, con i piani sequenza e i carrelli su soggetti umani immobili e, sullo sfondo, una natura del tutto deturpata e ribaltata da elementi artificiali, dove i sogni diventano un teatro di posa.

Il ‘ritorno alla vista’ di Adam coincide con un nuovo modo di vedere le cose, di intenderle, di viverle.
Per Adam i sogni sono un luogo concreto in cui vivere la propria vita, dove poter incontrare le persone amate e perdute; tale concretezza emerge anche dalla fisicità che assumono i personaggi che popolano i sogni di Adam, a partire da un angelo le cui ali risultano sproporzionate, sgraziate, ingombranti, fino al volto deturpato dell’amico, passando per la ‘ragazza della televisione’ vestita di un bikini che non nasconde molto; le pareti che trasudano sangue sono la vita in ciò che non ha mai vissuto, i cuori pulsanti chiusi in barattoli di vetro sono la vita imprigionata di Adam e le evocative immagini di un serpente fanno emergere l’insinuante e sensuale (ma irrealizzabile) desiderio del protagonista verso la fidanzata persa.

L’aratro con cui il padre (morto) di Adam traccia un solco nel supermercato è lo sfregio alla modernità laica, che si contrappone alla sacralità della chiesa dove il film si apre e si chiude.

Il film di Majewski è fortemente evocativo, assolutamente anti-narrativo, denso di situazioni immaginifiche e visionarie: lo spettatore rischia di perdersi, di ‘non capirci più nulla’, ma occorre tenere presente che «Onirica» è innanzitutto un’esperienza visiva, un incredibile esercizio di cinema, sicuramente non adatto a chi cerca una storia raccontata, una narrazione delineata o un finale chiaro e preciso.

La mia personalissima valutazione è di **** su cinque.
Ma con la doverosa avvertenza che non è un film semplice da vedere, tutt’altro.
Se decidete di andare a vederlo, andateci ben riposati.