Argo, il bambino nero
di Ezio Gamberini

Ci siamo rivisti in occasione di un incontro conviviale dei "coscritti", evento che si ripete un paio di volte l'anno. Attilio mi ha detto: "E' morto il mio bambino nero!".


Attilio è un amico di cui ho già parlato nei miei racconti, quinto dei dieci figli di Zelinda che restò vedova quando la più grande aveva venticinque anni e la più piccola soltanto due.
E’ buono come il pane, avendo ereditato questa caratteristica dalla mamma che rifulge in cielo come una stella, e generoso come pochi: “Mi ha aspettato… ha atteso che tornassi dal lavoro, ed è morto libero, nel prato…” rievocando con un gesto della mano il preciso momento in cui si è accasciato al suolo.
Quest’affermazione ha suscitato in me un’emozione intensa e, ripensandoci, ancora oggi mi viene la pelle d’oca…
 
Il suo Argo aveva otto anni e mezzo, ed era un dobermann di straordinaria bellezza ed eleganza.
Quando mi allenavo per preparare le maratone li ho incontrati innumerevoli volte sul sentiero che costeggia il fiume, e insieme trascorrevano nei boschi due o tre ore ogni giorno.
Se capitava l’occasione lo lasciava libero, così Argo si divertiva a rincorrere gli scoiattoli, e quando incontrava una biscia si disponeva in “ferma”, richiamando con lo sguardo il suo padrone che magari la raccoglieva e la osservava da vicino lasciandola poi libera all'istante, rispettoso di ogni animale e incapace di far del male a qualsiasi essere vivente.
 
In ogni momento Attilio parlava del suo “bambino nero”, al quale era realmente affezionato come se fosse un figlio, e mentre ne decantava i pregi i suoi occhi scintillavano.
In qualche occasione lo portò anche al ristorante: “Con cinque euro gli ho fatto servire un piatto di carne e si è accucciato ai piedi del nostro tavolo, ordinato e mansueto”.
 
Prima di andare a letto aspettava che uscisse nel prato, per i suoi bisogni, poi richiudeva il portone e saliva in camera, lasciando aperte le porte di tutte le stanze. Il mattino, quando si svegliava, gli capitava talvolta di aprire gli occhi e incrociare quelli di Argo che silenziosamente, dopo aver abbandonato il suo giaciglio in cucina, era salito in camera e aveva appoggiato il muso sul cuscino di Attilio, immobile e senza farsi udire, per aspettare paziente il suo risveglio.
 
Quando arrivò il nipotino, Argo divenne la sua guardia del corpo, e si sarebbe fatto annientare pur di difendere il “padroncino” aggiunto.
Attilio lavora in una grande acciaieria e i suoi turni sono impegnativi. Non esistono il giorno e la notte, il sabato e la domenica, Pasqua o Natale, e quel giorno era di turno dalle due del pomeriggio alle dieci di sera.
Tornò verso le dieci e mezzo, come sempre, e senza eccezione, anche in quell’occasione, Argo lo aspettava sulla soglia di casa.
 
“E’ sdraiato e immobile da oggi pomeriggio”, lo avvertì la moglie, rattristata.
Da qualche tempo il dobermann soffriva moltissimo e si era gonfiato in modo preoccupante per l’eccessiva ritenzione di liquidi; ci si aspettava che in qualche giorno tutto sarebbe finito, come aveva ipotizzato il veterinario al quale lo avevano fatto visitare.
Quando Argo sentì Attilio calpestare il ghiaietto all’entrata, si riscosse e convinse il padrone ad accompagnarlo nel prato, come faceva ogni volta che rincasava, terminato il turno di lavoro. Fece qualche passo, poi accennò un’ultima corsetta, si scrollò due o tre volte, rivolse lo sguardo verso Attilio (poiché di sguardo si trattava!), lo fissò negli occhi per l’ultima volta, e infine si accasciò su un fianco nell’erba fresca, ai piedi di un sempreverde.  
 
Adesso Argo è sepolto alle radici di quel piccolo abete.
E quando a Natale l’alberello sarà addobbato con mille luminarie, festoni d’oro e argento, variopinti pacchettini di ogni forma e coloratissime luci a intermittenza, e ai suoi piedi sarà sistemata la capanna con Maria, Giuseppe e il Bambinello, non mostrate stupore se vi ritroverete ad osservare un altro personaggio impegnato ad allietare la scena, proprio al centro, tra il bue e l’asinello, alle spalle di Gesù Bambino: si tratta di uno splendido dobermann di nome Argo, il “bambino nero” che per otto anni e mezzo fu la consolazione e l’orgoglio del mio amico Attilio.
 
Ezio Gamberini