L'università dev'essere un investimento sulla passione
di Alberto Cartella

La riflessione settimanale del filosofo Alberto Cartella s'impernia sul ruolo di mero passaggio al mondo lavorativo che spesso viene attribuito al percorso universitario, trascurando quella passione che anima ciascuno di noi e rende la vita degna di essere vissuta

 
L’università è qualcosa sulla quale investire del denaro, la quale poi ti darà delle prospettive lavorative? L’università si riduce a questo? La frase “però poi bisogna mangiare”, se diventa ciò che orienta chi sta per iscriversi, chi sta per affrontare un test per un corso ad accesso programmato o chi è già iscritto, cosa implica?
 
Per mangiare bisogna essere per forza dei laureati in giurisprudenza, ingegneria, economia? Coloro che vi raccontano che l’università è un investimento per il futuro, funzionale a farvi trovare più facilmente un lavoro e magari maggiormente retribuito vi stanno raccontando una favola per vendere più facilmente il proprio prodotto.
 
Non si tratta solo dell’università ma di un approccio alla vita molto sedimentato. Nel suddetto discorso dove sta la passione (il punto in cui il godimento coincide con il desiderio)? La passione non è l’hobby ed è qui intesa come un patimento, come un cedere alla propria emozione ed è una passione per il presente. Si tratta di qualcosa che ci attraversa e ci orienta.
 
Ma ci si può anche allontanare da questo e cercare di risolvere questo aspetto per esempio con la frase: “ma tanto poi bisogna mangiare”.
Ma allora se tanto poi bisogna mangiare, perché perdere tempo e fare dei “sacrifici”? L’università viene vista come un sacrificio, come qualcosa da sbrigare in fretta perché tanto quello che conta è dopo, è il lavoro per mangiare e si tratta di risolversi in questo aspetto, senza passione e senza gioia.
 
Davvero l’università è solo un passaggio? La passione è qualcosa che deve essere sempre legata a un riscontro economico? In qualche caso la passione coincide con il lavoro che si fa per mangiare?
 
La passione e il dedicarsi al proprio desiderio è qualcosa che si sottrae al tempo che ci viene preso per esempio per lavorare per mangiare. Non si tratta di una contrapposizione ma di un punto di crisi, di un punto di cedimento alla propria emozione. Questo vuol dire non risolversi all’interno di un ragionamento che razionalmente mi dice che per lavorare bisogna mangiare e chi lo fa è una persona ragionevole. Si sta parlando dell’importanza del perdere tempo, del dedicarsi al proprio desiderio.
 
Davvero se l’università non è vista come un passaggio in vista di un lavoro, allora essa è il farsi una cultura che ci si potrebbe fare da soli a casa propria?
 
Credo che seguendo questa tendenza si continui a correre verso un vuoto totale. Non si considera minimamente il tessuto vivente dell’università, si inizia a considerare l’università come una pratica da sbrigare in fretta e non come uno spazio che è anche una sottrazione dal “devi fare così perché poi dovrai lavorare per mangiare”.
 
Se si inizia un incontro e un avvicinamento alla propria passione viene a crearsi una controtendenza, un contro-ritmo (qualcosa che scardina il ritmo di vita e lo stile di vita) nella modalità di approcciarsi all’università. Ciò non riguarda solo chi sta facendo o chi vuole fare l’università ma anche chi non la fa e non la vuole fare e che magari lavora o sta cercando lavoro e anche chi l’ha già fatta. Si tratta di un approccio, di una modalità che richiede impegno, fatica e studio.
 
Anche se si tratta di un esercizio non coincidente con la volontà. Più che dell’esercizio si tratta di un lasciar esercitare quel punto di indeterminazione della nostra soggettività, quel punto che non si risolve nell’essere determinati in vista di un obbiettivo (“il mio obiettivo è diventare un avvocato!”).
 
Non è un’alternativa ma è qualcosa di costitutivo della nostra soggettività che siamo stati formati a risolvere. L’emotività è vista come un problema da risolvere, quello che conta è essere razionali. Questo ha delle implicazioni devastanti.
 
Il lavoro in nessun caso coincide totalmente con il proprio desiderio-godimento e con la propria passione. Questo non vuol dire allora che il lavoro sia qualcosa verso cui ci si deve contrapporre, ma vuol dire che è importante non risolvere quel nucleo anomico che si sottrae al “lavoro perché bisogna mangiare”.
 
Einstein ha rivoluzionato il mondo della fisica mentre lavorava all’ufficio brevetti. Noi non siamo quello che facciamo. La passione è ripetizione e non è “faccio qualcosa per raggiungere qualcos’altro” o “faccio dei sacrifici per raggiungere qualcosa di concreto”, come se la passione non fosse ciò che è concreto, che con-cresce dentro di noi, ci attraversa e rende la vita degna di essere vissuta. Essa ci salva la vita salvandoci dalla vita.
 
Un grande pittore alla domanda: «per lei dipingere è più che vivere?», ha risposto semplicemente: «Dipingere è certamente per me l’unica forma di vita, l’unica forma che ho per difendermi dalla vita».
 
La passione intesa come patimento e non come stato d’animo è qualcosa che mette in crisi il progetto di vita e ci restituisce allo stare insieme. Si tratta del punto di crisi della logica del sacrificio. La festa è legittima in maniera immanente, non è legittimata da un’istanza superiore.
Se si sta insieme si mangia anche con gioia e qualcosa da mangiare c’è sempre.